// di Francesco Cataldo Verrina //
Da sempre esiste un’antica querelle che vede esperti ed appassionati divise su due sponde, gli uni contro gli altri armati, come direbbe il poeta. La faccenda riguarda la solita domanda: può essere considerato jazz qualsiasi operazione di tipo commerciale che vede in primo piano artisti di musica leggera, oggi si dice pop, cimentarsi con arrangiamenti di tipo jazzy? I confini tra musica jazz e canzone italiana, anche canzone d’autore, non sono per nulla labili e spesso chi si propone nella veste di cantante jazz improvvisato non ne conosce le dinamiche. In genere la musica pop non oltrepassa la quarta lezione di armonia.
L’argomento finisce per essere a volte noioso e sorretto da giustificazioni alquanto risibili. Abbiamo voluto riportare le riflessioni di Roberto Ottaviano, uno dei più autorevoli sassofonisti europei con collaborazioni internazionali. Ottaviani, il 15 settembre 2022, ha scritto sulla sua pagina personale di faceBook quanto segue (riportiamo integralmente).
Roberto Ottaviano scrive: La questione che riguarda la relazione tra “canzone italiana” e Jazz mi appassiona poco, anche se è un fatto che in questi anni ha preso un certo spazio tra le spigolature concettuali e soprattutto nella legittimazione di repertori, programmi e addirittura progetti tematici… Mi appassiona poco perché gli argomenti a suo sostegno ne sottolineano invece l’aspetto più ingenuo, debole e per certi versi anche un pelino furbo.
Ingenuo perché si scomoda l’equazione songwriter di estrazione Broadway uguale pletora di autori e cantautori popular nostrani, come se ci fosse una logica diretta ed inequivocabile. Dico ingenua perché con le debite eccezioni, non ci vuole una laurea in musicologia per rendersi conto del diverso livello di articolazione del linguaggio armonico e melodico degli uni rispetto agli altri, oltre che la differenza sostanziale delle cellule motiviche originarie.
ATTENZIONE, NON NE STO FACENDO UNA QUESTIONE DI VALORE MA DI SOSTANZA.
Debole perché, in molti casi anche se non in tutti, l’operazione è stata banalmente quella di applicare il suffisso “in” e quindi modificare pattern e feeling ritmici introducendo lo swinghetto a go go…Ed ecco il fiorire di Questo e Quello ma “in” Jazz
Infine la componente “furba” è stata fondamentalmente quella di molti protagonisti della cosiddetta musica leggera che, con scopi e motivazioni disparate, hanno cominciato a circondarsi di musicisti di Jazz che improvvisano allegramente tra un refrain ed una coda, trasformano il giro di Do in un Coltrane change, creano quell’alone maledetto tanto caro a certe iconografie, impreziosendo una produzione di per se davvero molto stanca e arida da diversi anni a questa parte.
Più interessante sarebbe, a mio avviso (ed è la ragione per cui credo sia comunque possibile un intreccio tra canzone Italiana e modalità espressive che sono prossime al Jazz o comunque alla musica afroamericana), discutere di come quel patrimonio antico ma anche più recente, può costituire una fonte interessante da attraversare morfologicamente grazie alla sensibilità di un improvvisatore, di un compositore o arrangiatore che conosca e ami profondamente il gusto e la visione della musica che dal blues è approdata a Wayne Shorter e oltre.
Non a caso infatti, un musicista di superiore preparazione tecnica ed intellettuale e di grande lungimiranza come Giorgio Gaslini, già negli anni sessanta compì una operazione di straordinaria profondità culturale con l’elaborazione delle “12 Canzoni d’amore Italiane”, incrociando autori come Mario Lanza, Tino Spotti, Gino Paoli, Fiorenzo Carpi ed altri fino a scrivere successivamente ben quattro raccolte di canzoni originali dal melos a forte prevalenza italiana con spunti colti e non, dal madrigale alla canzone popolare, musicando testi importanti come quelli di Malcom X o Alfonso Gatto.
Quello che trovo essere il suo più degno successore (che ne è stato per un certo periodo anche suo collaboratore), è Paolo Damiani . Fin da subito Paolo ha sollevato la questione delle matrici di appartenenza come un elemento ispiratore affrancandosi, pur nel loro rispetto, dai modelli afroamericani evidentemente in naturale simbiosi con una diversa comunità. Paolo ha costruito temi, sviluppi, ricerca dei testi, sillabazione e metro, in perfetta sintonia con la più pura tradizione della canzone italiana, usando le declinazioni regionali dei cantastorie, il recitar cantando, usando quella straniazione infantile introdotta a suo tempo nelle interpretazioni di Annamaria Mazzini in arte Mina, e così via. Basti seguire le sue opere come Al Tempo che farà, Classiche Musiche Leggere, Silenzi Luterani.
Poi c’è stato e c’è un grande, anche se alle volte sotterraneo, lavoro di molti “cantanti”. E metto le virgolette perché definirli tali mi pare una diminutio… Un grande talento troppo presto eclissato, quello di Tiziana Simona che ha scritto testi visionari e poetici, interpretandoli in modo unico e raffinato, valorizzando la lingua italiana che spesso viene umiliata, in certi contesti, per la sua presunta scarsa musicalità. Un’altra Tiziana poi, colei che ha a lungo dominato la scena, incarnando forse la seconda generazione delle grandi interpreti Italiane o perlomeno di origine Italiana come Caterina Valente, Lilian Terry, Jula De Palma. Tiziana Ghiglioni che ci ha restituito fino ad ora una tra le migliori testimonianze di Luigi Tenco mai realizzate ed ha, per l’appunto, interpretato il Songbook Gasliniano.
Poi, non posso non citare l’amata Maria Pia De Vito . Credo in assoluto il più bel suono vocale, autenticamente italiano, che sia riuscito a penetrare il mondo sud e nord americano senza alcun complesso, senza giochi mimetici (o vogliamo dire a fare il verso ?), ma anzi imponendo un modello e stabilendo autorevolezza. La sua riscrittura in lingua Napoletana di canzoni Brasiliane è un vero e proprio esercizio da manuale. Infine sono anni che Peppe Servillo, in barba a qualsiasi etichetta e categoria, porta in scena la maschera, il disincanto, lo sberleffo, il sangue e l’ironia, della commedia dell’Arte con la danza del Jazz e del pensiero triste che si balla. Il suo (con Girotto e Mangalavite suoi compadres) omaggio a Lucio Dalla, è stata l’operazione più autentica, sincera e avvincente del genere, che mi sia capitato di ascoltare di recente. E poi ci sono ancora la delicata acrobata Cristina Zavalloni che dopo infinite teorie di volo approda al Nino Rota vocale e Serena Spedicato che apre il diario della “scuola di Genova”, e ancora e ancora… Insomma ce n’è per chi non vuol morire di noia con i soliti “Morituri in Jazz”.
Un’analisi precisa ed obiettiva quella di Roberto Ottaviano che ci trova pienamente d’accordo.
