// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

Sono nato e cresciuto in Brasile, le mie radici sono ebraiche per parte di madre e afro-brasiliane per parte di padre. Ma sono cresciuto in Brasile, nazione in cui le radici africane sono estremamente forti e presenti in larghissimi strati della popolazione. La diaspora schiavizzata africana si esprime fisicamente anche in molte delle nostre abitudini piu quotidiane, come ad esempio non solo il cibo ma il modo di consumarlo: noi tendiamo a mangiare piu cose, anche assai diverse fra di loro, nello stesso piatto, semza separarle, anzi mischiandole fra di loro, senza avvertire conflittualità fra sapori e materiali. Proprio quella diversità che diventa un tutt’uno ci attrae.

In Europa mi hanno voluto insegnare che ogni cosa ha una separatezza, che certi ingredienti non vanno per nessun motivo mescolati, che vi sono differenti piatti per differenti cibi, differenti posate, differenti tempi all’interno di una liturgia che rende il cibarsi un rituale talvolta non aperto a tutti e non necessariamente comunitario o collettivo. E così anche in musica la danza, la drammaturgia, l’armonia, il ritmo, la melodia, l’improvvisazione, l’oralità vivono separatamente e vengono studiate e applicate e usate come entità distanti e distinte fra di loro: anche in musica, noi discendenti della diaspora africana tendiamo a usare tutto insieme, in unico piatto. Leila Adu-Gilmore è una compositrice inglese di origini ghaniane che da tempo conduce una ricerca in grado di condurre ad una de-colonizzazione estesa se non integrale della musica di origine africana, esaminando e recuperando determinate pratiche trasmesse oralmente e senza tracce scritte e predicando il rifiuto di prassi musicologiche basate su parametri eurocentrici (adottando piuttosto il suono registrato al posto dei testi che non includono quanto non sia possibile imprigionare in un pentagramma e secondo la norma eurocentrica).

La sua “Freedom Suite” è volutamente semplice in apparenza, lascia che la melodia parli da sé, venga recepita con facilità e compresa da chiunque ascolti e possa così far parte di una comunità di ascolto. Sono tre canti che parlano in modo breve ed eloquente di come la colonizzazione abbia cancellato le tracce di ciò che non è bianco ed accademico in senso eurocentrico e di come la stessa colonizzaone pretenda di gestire lo studio della musica afrodiasporica secondo criteri in cui solo la tecnologia linguistica eurocentrica è ammessa. Così come accaduto a lungo per la diaspora ebraica, i bianchi hanno preteso che la tradizione bianca ed europea dettasse legge sulle abitudini sociali e culturali vissute anche nell’intimità delle famiglie diasporiche: non vi era territorio possibile in cui negoziare con i dominatori la propria indipendenza e la propria sopravvivenza spirituale e culturale, se non nei ghetti o di nascosto.

Così l’autrice descrive i tre canti di “Freedom Suite”, in questo caso proposti da una superba cantante e idiomatica interprete come Elaine Michener: “Queste tre canzoni hanno come tema l’America: la prima, Different States, l’ho scritta quando ho visitato gli Stati Uniti per la prima volta nel 2007: è la mia impressione iniziale, raccontata attraverso la voce di un “Altro”; un uomo, forse un afroamericano o un immigrato dall’America Latina, che ha vissuto, lavorato e fatto la guerra per questo Paese. La seconda, Ghost Lullaby, è una canzone che ho scritto quando sono arrivato nella città di Princeton e mi sono reso conto che solo un paio di persone menzionavano i nativi americani e che nessuno parlava della tribù di persone che aveva abitato lo spazio reale in cui vivevamo mentre ero lì. La terza, Negative Space, è una canzone che ho scritto dopo aver saputo dell’omicidio di Trayvon Martin e parla del vuoto che si è creato per molti neri a causa dei continui effetti del colonialismo, della schiavitù, della prigione e del sistema giudiziario.”

Freedom Suite – Leila Adu-Gilmore