// di Marcello Marinelli //
Stazione Tiburtina, viaggio di ritorno dall’ufficio, viaggio di ritorno dal centro, si torna nell’hinterland, nella profonda periferia. Treno destinazione Tivoli, Guidonia, estremo lembo di campagna romana ad est dopo il Grande Raccordo Anulare (G.R.A.), il nostro grande padre spirituale, padre di tutte le strade che portano e partono dalla capitale, ma scenderò molto prima della destinazione finale, mi fermerò alla stazione La Rustica, la mia affezionatissima borgata. Nel tratto metropolitano e subito dopo, oltre il G.R.A., si incontrano accampamenti zingari. Tratto di città storicamente ospitale delle tribù rom in transito per la città. Sarà per comune radice (rom) che ci accomuna, Rom(a) città aperta, per tutti i secoli dei secoli. Il tratto ferroviario costeggia palazzoni di periferia. Adiacente ad esso, un altro tratto in costruzione della ferrovia metropolitana FM2. Cantieri aperti. All’altezza di viale Palmiro Togliatti, il primo accampamento sotto il cavalcavia. Roulotte scassate, cumuli di immondizia, bambini che giocano all’aria aperta; accanto, orti coltivati e terreni incolti in attesa di una prossima futura bonifica. Qualche scheletro di automobile data alle fiamme, automobili rubate, ovviamente. Accampamento dall’aria clandestina o quantomeno temporaneo. Qui sorgerà una delle stazioni della nuova linea. Mentre scorrono le immagini dal finestrino che il treno in movimento mi sottopone, incontro uno zingaro sul mio scompartimento, mi si avvicina e comincia a parlare. È vestito bene, parla un buon italiano e ha la cittadinanza italiana.
Mentre scrivo del mio incontro con lo zingaro sto ascoltando un pezzo dub, ritmo ipnotico; il titolo del brano è ‘Throw away the gun’ (butta la pistola) di Prince Far, titolo profetico rispetto all’argomento in questione, ovvero la tratta metropolitana della ferrovia. Una decina di giorni fa c’è stata una sparatoria sul treno alla stazione Lunghezza, nessun ferito e nessun morto per fortuna, gli zingari con la sparatoria non c’entrano e in genere con le sparatorie non c’entrano. Lo zingaro mi parla del suo campo, si tratta del campo di ‘Salone’ il più grande d’Europa dopo lo smantellamento del campo nomadi del Casilino 900. Mentre parlo con lo zingaro mi sembra di essere dentro un set di un film di Kusturica, che ha reso filmica la vita dei rom. Il brano seguente l’atmosfera diventa rarefatta, non potrebbe essere diversamente dalla musica di Harold Budd e Brian Eno; faccio uno dei miei soliti viaggi che se fossi ancora negli anni ‘70 dire ‘mi faccio un trip’, invece viaggio scandagliando la mia mente con la musica in bella mostra e con fiumi di parole scritte, senza LSD ed Exstasy, non mi piacciono le droghe sintetiche, quindi, faccio un viaggio naturale.
Lo zingaro si affaccia al finestrino, anch’io. Mentre costeggiamo un altro campo rom della zona, quello di via Salviati a Tor Sapienza, mi indica la roulotte dei suoi parenti, vivono di espedienti, non tutti però, ci tiene a precisare, lui ad esempio, fruga nei cassonetti dell’immondizia tutti i pomeriggi. Pesca nei rifiuti della società opulenta, quanto basta per trovare roba da rivendere la domenica ai mercati. Ci sfama la moglie che lo aspetta a casa, pardon nella roulotte, e i suoi quattro figli. Cerco ispirazione nella musica. Faccio un viaggio mentale a ritroso verso i paesi di provenienza degli zingari. Risalgo verso il nord della nostra penisola, attraverso il confine con l’ex Jugoslavia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro; poi in Albania, Bulgaria e Romania ma non mi fermo e vado oltre. Vado a cercare comuni radici indo-europee, mi spingo con la mente al viaggio mentale, ed è bello viaggiare gratis, i viaggi mentali sono gratuiti. In compagnia del grande e purtroppo scomparso, Nusrat Fateh Alì Khan cantante pakistano di straordinaria intensità e suonatore di tabla, che esegue ‘mustt, mustt’, brano remixato dai Massive Attack, gruppo trip-hop inglese, si contribuisce all’amicizia tra i popoli e alla vicinanza delle culture. Arrivo in Pakistan e qui mi fermo perché ho fatto migliaia di chilometri e anche se è un viaggio mentale sono stanco.
Lo zingaro l’ho lasciato al finestrino con sua figlia Sarah in braccio, che non vuol fare la pipì nel bagno del treno perché troppo sporco. Incredibile, sono sbalordito da questa notizia sconvolgente. Lo zingaro mi guarda compiaciuto di avermi rivelato la notizia ‘bomba’. Alcuni zingari non cagano sui cessi sporchi; la bambina vuole fare la cacca nel suo bagno chimico della sua roulotte. L’ha pagata 15 milioni di lire, mi dice che è una bella roulotte. I riff alla chitarra di Robert Fripp mi mandano al manicomio, credo che si stimolassi artificialmente la mia mente farei un viaggio nei miei circuiti cerebrali Lo zingaro poi mi dice che, ironia della sorte, gli hanno rubato il gruppo elettrogeno che alimentava la corrente della roulotte, sono stati i rumeni, gli ultimi arrivati, zingari di origine non slava. Rivalità tra zingari. Non saprebbe dove ritrovare il suo gruppo elettrogeno. Un perfetto gruppo elettrogeno, non faceva neanche un sibilo di notte, un milione e mezzo di lire l’aveva pagato. Zingari che rubano ad altri zingari, neanche i microcosmi sono mondi omogenei. Si dividono per etnia, provenienza, religione, mussulmani, ortodossi. Prosegue a ruota libera il racconto dello zingaro che aggiunge che non si possono lasciare incustoditi i panni stesi la notte, li rubano. È dura la vita degli zingari, roulotte malconce, almeno la maggior parte delle roulotte, freddo, caldo. Parecchi di loro vivono di furti, di borseggi, espedienti vari. Il nostro zingaro invece ricicla materiali buttati nei cassonetti. Un lavoro ecologico, no? Ultimamente li vedo anche ai semafori, una schiera di zingari con le spazzole lavavetri. Si fermano ai semafori con i bimbi in braccio, mendicano. È proprio un mestiere routinario quello del mendicante e del lavavetri. Li incontro sempre alla stessa ora sul treno la mattina presto e alla stessa ora al ritorno, pieni di buste, di cianfrusaglie. Nonostante la durezza oggettiva della loro vita, mi sembrano allegri, sono rumorosi, i bimbi sorridono, ‘Ho visto anche degli zingari felici’ come recitava una bella canzone di Claudio Lolli, un cantautore degli anni ’70. C’è un altro accampamento prima che si arrivi a destinazione ma qui non ci sono roulotte ma container, forse il primo passo verso la stanzialità anche se uno zingaro che si ferma è una contraddizione in termini. Parabole sui tetti, feste rumorose, gli zingari si divertono. Non cercano di piacere, tutt’altro, orgogliosamente diversi. Diversi nelle acconciature bizzarre, nelle barbe non rasate, nei bambini scalzi.
Sarà la musica celestiale di David Sylvian così poco incline al rancore e al risentimento, ma non riesco proprio a odiare, al contrario di molti, questi zingari, come del resto non riesco a odiare nessun altro solo per appartenenza. La mattina sul treno quando li incontro la puzza che circola nell’aria è evidente ma è una puzza fisica, anzi chimica, ma la puzza che non sopporta è quella che viene dall’anima, quella che non scompare anche dopo accurati lavaggi. Non voglio beatificare, né osteggiare i miei compagni di viaggio quotidiani, ma li osservo, cerco di carpire qualcosa da loro. Non sono il ‘male assoluto’, sono ‘poveri cristi’, come noi, noi non siamo ‘poveri cristi’? Tutti poveri cristi che vaghiamo nell’universo alla ricerca di senso. Non sono l’avvocato d’ufficio degli zingari, riflettevo in un pomeriggio di una giornata piovosa d’autunno su di loro con la mia immancabile compagna di vita, la musica. E lo zingaro che mi parlava poc’anzi? Mi ha detto che prenderà il suo furgone Ford Transit del 1981, raccoglierà le sue mercanzie con sua figlia Sarah. Frugherà nei cassonetti, troverà tesori nascosti che rivenderà. Lo saluto, mi augura buona giornata, gli auguro buona giornata. Lui si ritirerà nella sua roulotte, io nella mia casa e ognuno farà quello che saprà e soprattutto quello che potrà.
