// di Francesco Cataldo Verrina //

Per dare forma e sostanza ad un al album come «The Fox», pubblicato nel 1977 dalla CTI, bisogna conoscere le dinamiche mentali di Creed Taylor, fondatore della Impulse! Records, dove nel 1960 mise sotto contratto John Coltrane e, successivamente, deux ex machina alla Verve, presso la quale introdusse la bossa nova nel jazz producendo i successi planetari di Stan Getz. Creed Taylor aveva il pregio o il difetto, a seconda dei punti vista, di coniugare tradizione e modernità, di sapere intercettare le tendenze, ma con un occhio sempre teso allo specchietto retrovisore, che lo teneva saldamente legato agli stilemi più classici e rodati del jazz. Le sue produzioni avevano sempre una finalità di tipo «commerciale», ossia di arte come produzione che travalicava sfacciatamente il concetto, forse più nobile, di arte come espressione. Detto in parole povere, i dischi pubblicati da Creed Taylor, anche con la sua personale etichetta CTI, erano destinati, non me vogliano gli animalisti, a portare la pelle dell’orso a casa. In particolare Creed aveva il vezzo di mettere insieme molto spesso degli ensemble all-star intorno ad un band-leader che fungeva da collante e da richiamo: l’album a nome di Urbie Green non sfugge alla regola aurea di casa Taylor.

Urban Clifford Green, detto Urbie, trombonista di rango originario dell’Alabama e scomparso nel 2018, era un musicista piuttosto versatile e adattivo, dotato di un suono morbido, caldo e suadente. Quando nel novembre del 1976 Green varcò la soglia dello studio Van Gelder sotto l’egida di Creed Taylor, pur essendo un nome pressoché sconosciuto a molti italiani, aveva già scritto pagine importanti della storia del jazz e non solo. Poco più che sedicenne iniziò a lavorare come professionista al seguito della Tommy Reynolds band e successivamente al soldo di Jan Savitt, Frankie Carle, Gene Krupa. Nell’ottobre del 1950 Urbie entrò a far parte ufficialmente del Thundering Herd di Woody Herman emergendo grazie al suo approccio distintivo e caratterizzato su uno strumento come il trombone che faceva pochi sconti, tanto che nel 1954 vinse il Down Beat International Critics Award come «new star». Negli anni successivi alcuni critici iniziarono ad usare per lui l’appellativo di «trombonista dei trombonisti», e mentre la sua fama cresceva, il numero di richieste come sideman in studio s’infittivano sempre di più, al punto da diventare uno dei musicisti più «registrati» della storia del jazz. Il suo trombone ha siglato momenti indimenticabili nei dischi di Gene Krupa, Woody Herman, Benny Goodman, Louis Armstrong, Count Basie, Leonard Bernstein, Frank Sinatra, Billie Holiday, Tony Bennett, Peggy Lee, Pearl Bailey, Ella Fitzgerald, Mile Davis, Charlie Parker, Coleman Hawkins, Dizzy Gillespie, Barbra Streisand, Perry Como, Aretha Franklin, Quincy Jones, J.J.Johnson, Antonio Carlos Jobim, Burt Bacharach, Buck Clayton e Herbie Mann, solo per citarne alcuni.

Quando «The Fox» venne dato alle stampe, alcuni critici definirono il disco come un’opera «leggera», che appagava soprattutto le finalità di mercato di Creed Taylor, ma che limitava le possibilità espressive di Urbie Green. In verità «The Fox» va giudicato, calandolo nel contesto tipico della CTI che, specie negli anni Settanta, fu prodiga di produzioni che dividevano gli amanti del jazz in due fazione: i sostenitori incalliti di certi modelli sonori che riconoscevano a Creed Taylor la capacità di riportare in auge o di corroborare la carriera di artisti diversamente trascurati, (era accaduto con Freddie Hubbard, Art Farmer e George Benson) attraverso commistioni di stili e linguaggi e dall’altra i puristi del bop o i fanatici delle avanguardie che rifiutavano a priori le alchimie ed i giochi di prestigio del demiurgo della CTI, i quali strizzavano sistematicamente l’occhio e l’orecchio all’easy listening, al soul-funk e alla musica caraibico-brasiliana. In verità, la linea editoriale di tutto il catalogo dell’etichetta di Creed Taylor rientra nella definizione di light fusion. E qui bisogna fare un altro piccolo passo indietro e portare allo scoperto un’altra figura, che certamente in Italia molti ignorano. Il concetto di light fusion alla fine degli anni Settanta fu cavalcato da musicisti come Jeremy Steig, il quale fu uno dei primi a comprendere la tecnica modale introdotta da Miles Davis e a combinarla con il free jazz. Allo stesso tempo, in Jeremy & The Satyrs sperimentò anche il jazz-rock psichedelico. La musica apparentemente «caotica» di Jeremy Steig era nata dalla collaborazione con Eddie Gomez, suo compagno di liceo. Eddie Gomez aveva suonato con il Bill Evans come bassista in «What’s New? (1972), insieme a Steig, dove erano emerse delle tentazioni vagamente fusion. Le collaborazioni, tra Steig e Gomez, che i due chiamavano «jam» o «improvvisazione nella sua forma più pura», iniziarono con un duo basso e flauto e si espansero nell’Eddie Gomez Quartet fino agli ultimi anni di vita di Jeremy Steig.

La light fusion degli ’70 può essere intesa come una corrente più smooth del jazz-rock degli anni ’60, e vide la partecipazione, tra gli altri, di Jeremy Steig a « Te Fox» di Urbie Green e «Crawl Space» di Art Farmer (1977), di cui all’epoca qualcuno scrisse: «solo buona musica di sottofondo» o «il jazz è morto», in realtà si trattava di una sorta di evoluzione in senso elettrico del più leggero jazz della West Coast. Oggi, ex-post, bisogna invece convenire che album di tale fattura, in particolare «The Fox», non siano lavori da sottovalutare assolutamente, soprattutto per la qualità dell’ensemble e di quella tribù di strumentisti che si alternarono nelle varie tracce: Urbie Green (trombone) con Fred Gripper e Mike Abene (pianoforte), Anthony Jackson e George Mraz (basso), Eric Gale (chitarra), Jeremy Steig (flauto), Joe Farrell (sax soprano), Mike Mainieri (vibrafono e tastiere), Toots Thielemans (armonica), Barry Miles (sintetizzatore), Sue Evans e Nicky Marrero (percussioni) e Andy Newmark e Jimmy Madison (batteria). Certamente Creed Taylor non badava a spese, tanto che qualcuno si è spinto verso la definizione di «capolavoro sottovalutato». Con una formazione del genere, una all-star fusion band, anche se non si può parlare di capolavoro, il risultato finale è estremamente gradevole. Alcune composizioni sono delicate, altre immediatamente accattivanti, altre ancore ostentano la tipica ambientazione funkiness di gran voga in quegli anni: merito degli accurati arrangiamenti di David Matthews. A turno i musicisti supportano egregiamente il band-leader: l’opener «Another Star» è un omaggio a Stevie Wonder riproposto attraverso un’atmosfera soulful e sospesa a cui fa da cornice il flauto di Steig a corollario del fluido trombone di Green. Joe Farrell, al sax soprano, raggiunge il climax in «Mertensia», mentre «You Don’t Know What Love Is» diventa una vetrina luminosa per Toots Thielemans che, come al solito, trasforma il suono dell’armonica in una forma d’arte. In «Manteca» è proprio Jeremy Steig al flauto a reggere le sorti dell’impianto sonoro, ma una menzione speciale va anche al vibrafono di Mike Mainieri. La «Foxglove Suite» da «Tristano e Isotta» di Wagner è di una bellezza ammaliante: qui Urbie Green raggiunge la capacità di comunicare la purezza del pensiero attraverso il trombone: i suoi sottotoni sono impeccabili, il fraseggio fenomenale, la musicalità fuori dal comune, infine la padronanza dello strumento è da accademia del jazz. La magia si ripete nel finale con «Please Send Me Someone To Love», una ballata da mille e una notte, insanguata dalla chitarra blues di Eric Gale e magnificata dal contrappunto fra il trombone del leader e l’armonica di Thielemans. Al netto di ogni congettura «The Fox» potrebbe essere per molti l’occasione di riscoprire un disco scomparso dai radar e per altri un modo per approfondire un trombonista come Urbie Green, decisamente trascurato dalle cronache jazzistiche italiane.