// di Francesco Cataldo Verrina //

Per inquadrare bene un album di tale fattura, in primis vanno presi in considerazione gli arrangiamenti orchestrali di Quincy Jones, che erano come un formulario, una sorta di modulo con risposte in bianco, alle quali vari musicisti coinvolti nel progetto dovevano rispondere, di cui potevano riempire le caselle e colmare gli spazio con estrema libertà espressiva, per poi ricongiungersi in maniera sincretica al nucleo centrale di ogni singolo componimento. In seconda istanza va sottolineata la capacità di Milt Jackson di operare quasi a ruota libera, senza voler sminuire la sua portata all’interno del Modern Jazz Quartet, che in quello stesso periodo costituiva un asset importante nel mondo del jazz, ma lontano dal blues e dal soul che ribollivano nelle vene del vibrafonista.

John Lewis aveva imposto al Modern Jazz Quartet una sorta di minimalismo barocco, con arrangiamenti che enfatizzavano l’improvvisazione contenuta all’interno di un contrappunto attentamente controllato. Si trattava di un cool jazz ante-litteram o di jazz cosiddetto da camera nella sua migliore espressione, il quale era in grado di soddisfare contemporaneamente i non-musicisti, gli intellettuali, i critici eurocentrici e gli hipster. In tale contesto, però, Jackson, per metafora, agiva come il «Numero di Eulero» in fisica, ossia alla medesima stregua di una costante adimensionale atta a correlare le forze d’inerzia alle forze di pressione. All’interno di questo quadro classico, composto e controllato, le frequenti esplosioni di Bags, per quanto brevi, diventavano un piacere supremo, un promemoria sul fatto che la formalità esteriore del gruppo non pagava alcun tributo alle sue radici ben piantate nel blues o nello swing. Pochi musicisti, in quegli anni, sapevano suonare il blues in modo così profondo o erano capaci di swingare con la naturalezza e la disinvoltura di Milt Jackson. Ciò la dice lunga sul fatto che il vibrafonista avesse trovato spesso il suo break-even-point al di fuori della rigida cornice del MJQ, in particolare con Coltrane, Wynton Kelly, Cannonball Adderley e persino Ray Charles. L’attacco all’arma bianca a John Lewis fu uno degli sport preferiti dai seguaci del verbo di Milt Jackson. Si dice che Jackson detestasse il pianista e che, nonostante fosse stufo della linea editoriale del quartetto, vi rimanesse solo per questioni di soldi. Tuttavia, non va dimenticato che l’abilità di Lewis nella scrittura e nell’arrangiamento, nonché il suo sobrio ed aristocratico supporto pianistico portarono Jackson a suonare in modo magistrale ed a perfezionare progressivamente la sua tecnica.

In «Plenty, Plenty Soul», registrato il 5 ed il 7 gennaio del 1957 negli Atlantic Studios, Milt Jackson fu supportato da un nutrito numero di musicisti, appartenenti alla nomenclatura elitaria di fine anni Cinquanta, i quali alternandosi in due sessioni separate costituirono a volte un nonetto, altre un sestetto, senza che la morfologia del costrutto sonoro subisse particolari strattoni, forse apparentemente nella forma, ma non nella sostanza. E qui molti meriti vanno ai suddetti arrangiamenti del demiurgo Quincy Jones. Furono della partita: Milt Jackson (vibrafono), Joe Newman (tromba), Jimmy Cleveland (trombone A1-A3), (Cannonball Adderley contralto A1-A3), Frank Foster (sax tenore A1-A3), Lucky Thompson (sassofono tenore B1-B4), Sahib Shehab (sassofono baritono A1-A3), Horace Silver (pianoforte), Percy Heath (basso A1-A3), Oscar Pettiford (basso B1-B4), Art Blakey (batteria A1-A3), Connie Kay (batteria B1-B4). Il primo lato dell’album che presenta un gruppo di nove elementi, è magnificato dai contributi del vivace contralto di Cannonball Adderley, mentre il secondo lato in sestetto benefica dagli assoli del sassofonista tenore Lucky Thompson. Entrambi i solisti talvolta offuscano la presenza di Milt Jackson, ma essendo un album corale, l’esuberanza dei fiati, anche quella di seconda linea, risulta mediamente piuttosto esuberante. In verità ci troviamo all’interno di una vera e propria dimensione orchestrale, di cui il vibrafonista diventa una sorta di guida spirituale.

Dopo un primo fugace ascolto, il lato A sembrerebbe avere la meglio, ma è sempre una questione di punti di vista. L’apertura spetta alla title-track: «Plenty, Plenty Soul» è una rampa di lancio blues caratterizzata da una rapida sequenza di fraseggi funkified e dalle virtuose incursioni di Milt Jackson. In «Boogity Boogity» la sezione ritmica formata da Art Blakey, Horace Silver (già insieme nei Jazz Messengers) e Percy Heath (compagno di Milt nel MJQ) si rivela alquanto gioiosa e coinvolgente, mentre Jackson dal canto suo appare piuttosto stimolato dall’ingegnoso amalgama fra i sodali e galvanizzato dall’assolo di Cannonball Adderley (accreditato come Ronnie Peters per motivi contrattuali), che diventa uno dei contrassegni salienti dell’intero album. A suggello della prima facciata c’è una radiosa ballata, «Heartstrings», dove gli intarsi lirici del vibrafonista svettano magnificamente tra i vaporosi arrangiamenti di Quincy Jones che non nascondono un certo interesse per lo stile Mingusiano. La B-Side risulta più rilassata, probabilmente a causa dell batterista Connie Kay (altro collega di Milt Jackson nel MJQ) meno scattoso e muscolare di Art Blakey, tanto che l’iniziale «Sermonette», firmata dai fratelli Adderley, pur dotata di una melodia a presa rapida, si sostanzia quasi come un una pausa di riflessione, un camera di decompressione, per quanto piacevole. Ovviamente, Milt Jackson tira fuori dal cilindro la parte più sentimentale, specie in «The Spirit Feel», componimento dall’atmosfera alquanto spirituale e churching. Cosi come l’eccezionale tecnica di Jackson a quattro mallets (mazzette percussive) e la vitalità del sax di Lucky Thompson trascinano tutto l’ensemble verso un’armonia di gruppo, sinergica, confluente e lubrificata, specie in «Ignunt Oil». Nella conclusiva «Blues At Twilight» il costrutto sonoro viene avvolto dal vibrafono nelle limacciose spire del blues, attraverso una sinestetica narrazione impregnata di pathos. «Plenty, Plenty Soul», come dire un surplus di anima, diventa così il titolo più rappresentativo ed appropriato per uno dei bluesmen più inventivi della storia di quella forma d’arte americana chiamata jazz.