// di Francesco Cataldo Verrina //

Questo album di Wayne Shorter è rimasto agli «arresti domiciliari» per quasi quindici anni: registrato il 4 marzo del 1965 al Van Gelder Studio, fu «liberato» sul mercato solo nel 1979. Uno dei tanti errori imperdonabili di Alfred Lion che in quel periodo si trovava in difficoltà economiche e doveva centellinare le risorse. Nel giro di due anni il patron della Blue Note si sarebbe ritirato cedendo baracca e burattini alla Fantasy. Quando veniva fissata su nastro una sessione, il tutto era carico dell’etichetta di Lion e Wolff: costi e rischi. James Spaulding, genio incompreso ed eterno gregario, la racconta così: «I soldi non erano poi così tanti anche per i sidemen. Per me c’erano 250 dollari; a mezzogiorno ci venivano a prendere all’Empire Hotel e ci portavano allo studio di Rudy Van Gelder in taxi, e stavamo lì a suonare fino al tramonto. Facevamo più take possibili e lui (Lion) dava a ciascuno di noi un assegno, quindi dovevamo tornare di corsa a Manhattan prima che chiudesse la banca, cercando di incassare il nostro piccolo assegno e avere un po’ di soldi per tornare a casa e fare la spesa».

È pur vero che il sassofonista di Newark aveva pubblicato due capolavori di fila: «Juju» nel 1964 e, soprattutto, «Speak No Evil» nel 1965, ma lo sbaglio di Lion fu quello di non aver compreso che «The Soothsayer» fosse un album altrettanto valido, innovativo e più avanti rispetto ai precedenti, almeno nell’impostazione strumentale del line-up e che, forse, non sarebbe stato solo un costo per la Blue Note, ma un guadagno, poiché intercettava le nuove istanze del mercato ponendosi tra il post-bop ipermodale e le avanguardie a volo libero. Va precisato che Wayne Shorter non ebbe vita facile come tutti sassofonisti soggiogati dall’influenza coltraniana, genialità irrequiete con il baricentro sempre spostato in avanti e forieri di un sound che travalicava gli schematismi dell’hard bop, attraverso la precisione nell’attacco delle note, le lunghe frasi, i contrasti, le fughe improvvisative dilatate e le progressioni sospese e parossistiche. Tra il Wayne Shorter dei Messangers e quello di «Soothsayer» c’è un abisso. La formula compositiva ed espositiva del sestetto guidato da Shorter aveva consegnato alla Blue Note le carte nautiche del futuro, ma vennero rifiutate. Ascoltando l’album, dopo quasi sessant’anni dalla sua registrazione, si capisce subito che ogni tessera del mosaico era stata incastrata perfettamente e che quel gioco si squadra a sei appare attraente e distintivo ancora oggi, come risultò attuale nel 1979 quando il disco venne dato alle stampe per la prima volta.

I cambiamenti apportati da Shorter probabilmente destabilizzarono i maggiorenti della Blue Note, alimentando le dubbiosità di Lion sull’opportunità di investire su un concept che, per certi versi, si smarcava dalla linea di difesa conservatrice dell’etichetta, la quale aveva segnato uno score altissimo durante il momento di massima virulenza e penetrazione sul mercato dell’hard bop, ma i tempi stavano cambiando. Wayne Shorter al sassofono tenore, James Spaulding al contralto, Freddie Hubbard alla tromba, McCoy Tyner al pianoforte, Ron Carter al basso e Tony Williams alla batteria, virarono verso una dimensione diversa, specie la sezione ritmica, dove McCoyTyner e Tony Williams, ma anche lo stesso Ron Carter, impressero un modus operandi diverso rispetto ad Herbie Hanckok, Joe Chambers e Elvin Jones, suggerendo i «bagliori solari» che avevano infiammato la musica di Miles Davis, soprattutto è difficile immaginare in quel periodo una combinazione migliore tra sax contralto e sax tenore, ossia Spaulding e Shorter insieme.

L’opener «Lost» sviluppa un’atmosfera modale intrigante ed esotica che permette a Shorter e soci di sfoggiare le loro doti più liriche attraverso una serie di assoli quasi catartici e liberatori. Spaulding era l’esecutore meno conosciuto, ma il suo modo di suonare, solido e parkeriano, divenne il valore aggiunto del set, giustificando la sua presenza in tante sessioni della Blue Note di quel periodo. È proprio l’accoppiata Shorter-Spaulding a conferire a questo album alcune caratteristiche di unicità. I due sassofonisti appaiono precisi e mercuriali nelle parti all’unisono, negli scambi e negli assoli; per contro Hubbard risulta meno prominente e più defilato. «Angola» è diretto, spettacolare e veloce, un compromesso tra vecchio e nuovo, in cui Wayne Shorter, James Spaulding e Tony Williams fanno saltare il banco. Nonostante possa apparire il componimento più legato all’hard bop, il movimento e la progressione shorteriana sono piuttosto obliqui e non convenzionali, per contro la successiva «The Big Push» è assai più inventiva dal punto di vista melodico e l’interplay risulta più complesso e meno schematico. «The Big Push» è uno swing con una tavolozza di ottoni lucida e ampia. Shorter urla sgomitando con urgenza, mentre il contralto lacerante di Spaulding completa l’intonazione brusca del leader spostandola su un registro più alto. Carter entra in modalità high-stepping. Dal canto suo Tyner è giocoso e porta il tempo con armonizzazioni accentate, mentre Williams si agita con guizzi di colore, piani inquieti e mutevoli. La tromba dorata e scintillante di Hubbard s’inserisce abilmente nel contesto creando un ponte tra passato e futuro.

La title-track «The Soothsayer» merita certamente un posto al sole. È un blues minore tronco con una linea discendente a coda di rondine. Con estrema inventiva Spaulding si lancia nel primo assolo, moderando il suo fervore alla Bird. In passato il suono di Spaulding era apparso spesso scomodo e stridente, ma qui osa senza diventare abrasivo. Non va tralasciata l’abilità di Wayne, il quale si fa avanti con linee attentamente controllate e scolpite di pura bellezza. «Lady Day» è una ballata struggente dai contrafforti marcatamente lirici, dove Shorter offre un raro scorcio intimo di abbandono totale. Aspetti della sua personalità più recondita, raramente, si erano palesati fondendosi in un singolo assolo in modo così sentito. In conclusione, incontriamo uno splendido arrangiamento di «Valse Triste» di Sibelius, unica composizione non originale presente nell’album. Il fraseggio di Shorter si allunga gradualmente e cresce di intensità mentre sembrerebbe raccontare le sue esperienze e le influenze coltraniane. Hubbard, Spaulding e Tyner erano tutti esecutori di prima classe che non potevano essere intimiditi dalle sfide, ma nessuno di loro appare in grado di interpretare le implicazioni della scrittura e del costrutto melodico-armonico di Shorter così pienamente come egli stesso riesce a fare. Ovviamente, tale congettura non va considerata come una deminutio capitis per musicisti di quella taglia. Ciascuno di essi era in grado di avvicinarsi all’insolito metodo shorteriano e di assecondarlo, ma lui è l’unico che sembra serenamente a suo agio con talune composizioni, almeno negli assoli: il suo approccio era idiosincratico ed inimitabile. In «Soothsayer» i cinque sidemen suonano da pari, ma Wayne Shorter risulta sempre un passo più avanti.