// di Francesco Cataldo Verrina //

L’incontro di Altschul e Holland con Sam Rivers fu una sorta di allineamento astrale perfetto. Rivers trovò nei due soci, personaggi proteiformi e non facilmente circoscrivibili, un terreno di coltura fertilissimo su cui innestare e coltivare le influenze più disparate che aveva assorbito e maturato negli anni precedenti, in particolare attraverso la gestione, insieme alla moglie Bea, del famoso Loft Jazz Studio Rivbea. Negli anni Settanta il trio tenne numerosi concerti, per contro registrarono pochissimo in studio: esistono, infatti, soltanto due album realizzati in Europa come unica testimonianza tangibile dell’attività di questo fenomenale triunvirato. Il primo disco, «The Quest», registrato a Milano e pubblicato nel 1976 dall’italiana Red Records, è decisamente superiore al secondo, «Paragon», prodotto dalla parigina Fluid Records ed immesso sul mercato circa un anno più tardi. Oggi. Pubblicato di recente dalla nuova Red Records di Marco Pennisi, «The Quest» rivive in una splendida ristampa in vinile 180 grammi con grafica di pregio.

I tre si mostrano molto affiatati, quasi come se suonassero a memoria, la lunga convivenza e le innumerevoli performance live avevano sviluppato un marchingegno sonoro calibrato e mercuriale: ciò che si ascolta in «The Quest» è una sintesi, o comunque un condensato, di quanto i tre sodali riuscissero a fare durante le esibizioni dal vivo, soprattutto rappresenta un omaggio al multi-strumentismo di Rivers. L’album è un concept basato su quattro lunghe composizioni, in ognuna delle quali l’eclettico Sam suona uno strumento diverso, il che determina un umore costantemente variabile ed un approccio mutevole dal punto di vista dell’esplorazione sonora. In «Expectation» fanno subito capolino un vorticoso sassofono soprano, un nevrotico basso ad arco e un flexotone. Il basso si agita galoppando su e giù, mentre la batteria sembra aggredire il flusso sonoro con un’incessante raffica di colpi ben assestati. A due terzi del tragitto c’è un cambio d’atmosfera, il basso abbandona l’arco, ma pizzica e «cammina» con gruppi di piccole note, la batteria si solleva dal caos ed esegue un ritmo marciante che favorisce la melodia, quasi ruffiana, del sax che sul finale decide di scendere a più miti consigli.

«Vision», che riflette esotiche atmosfere, potrebbe essere una composizione adatta alla colonna sonora di un film ambientato tra i monasteri dei monaci buddisti. Parliamo di un’improvvisazione free-form aperta, ariosa e guidata dal flauto leggero e agile di Rivers che si muove su una piattaforma girevole a larga base formata dal basso e dalla batteria. L’inizio risulta più complesso e le trame più strette, ma è la caratteristica dei quattro brani presenti nell’album: nella seconda parte il tutto diventa più fluido e scorrevole, il flauto sembra danzare e l’accompagnamento della retroguardia risulta di tipo tradizionale e propedeutico ad uno sviluppo melodico più attrattivo. Quando il leader passa al piano su «Judgement», tutti e tre gli strumenti manifestano le loro caratteristiche percussive. Il ritmo è moderato-veloce. A circa un quarto del percorso musicale, avviene la solita transizione, si cambia mood e metodo, l’atmosfera diventa più tranquilla e sembrerebbe quasi che Rivers voglia passare dal free jazz al cocktail lounge, con la complicità del basso che gioca su una sorta di ripetitivo start-and-stop. Il robusto sassofono tenore di Rivers completa la suite con «Hope», una ruvida e scarnificata esposizione dell’improvvisazione jazz, che parte con un profondo suono di basso, a cui dopo un minuto si uniscono il sax e la batteria.

I tre strumenti si concedono molto spazio, quasi nell’attesa di capire che cosa voglia fare l’uno o l’altro. Progressivamente il ritmo si alza, a due terzi del cammino la batteria si trasforma in un furia invasata, mentre il sassofono s’inferocisce emettendo un flusso continuo di ruggiti strozzati e dissonanti, i quali avrebbero fatto la felicità di Anthony Braxton. Barry Altschul e Dave Holland costituivano una sezione ritmica in perfetta simbiosi mutualistica, in grado di competere ad armi pari con tante coppie più celebrate dai libri di storia del jazz. L’aver legato il proprio nome a quello di Sam Rivers ha prodotto un’insolita reazione chimica all’interno di quello che potremmo chiamare free-jazz, ma che per tre musicisti di questo spessore appare come un territorio alquanto limitato, avendo dimostrato, nell’arco delle loro singole carriere e collaborazioni a vario titolo, una duttilità che evidenziava una conoscenza del vernacolo jazzistico a 360 gradi. «The Quest», letteralmente «la ricerca», è un album di non facile fruizione per chi è abituato al mainstream convenzionale; parliamo sicuramente di una progressione a volo libero che non perde mai la rotta, poiché chi suona ne conosce bene le coordinate e la precisa destinazione.

Disponibile in vinile 180 grammi e CD nel catalogo della nuova Red Records di Marco Pennisi