// di Gianluca Giorgi //
Joel Ross, Who Are You? (2020 doppio vinile)
Il musicista americano ha pubblicato, ancora per la Blue Note, il suo secondo album, intitolato Who Are You?. Joel Ross è un giovane vibrafonista di poco più di vent’anni che si fa accompagnare da musicisti altrettanto giovani, più o meno suoi coetanei ed ex compagni di studi, un artista a tutto tondo, esperto batterista ed anche pianista, ma che proprio col vibrafono si è consacrato nel panorama jazz. Dal punto di vista narrativo l’album è basato sul concetto della “metà”: i brani da” Dream” a “Marsheland” introducono i temi e i personaggi, mentre quelli da “Waiting On A Solemn Reminiscence” a “3-1-2” sviluppano i colpi di scena. La musica è conseguentemente particolarmente varia; si passa dalle atmosfere modali, a quelle bluesy, dalla melodia, al minimalismo, dalla ritmica aggressiva, alle atmosfre soavi. Un disco particolarmente eclettico, sia nelle composizioni sia dal punto di vista timbrico, con l’arpa della Younger che regala suggestioni particolari. Brandee Younger che vedremo quest’estate ad Umbria Jazz, biglietti già presi. Uno dei lavori più belli degli ultimi anni.
CHRIS THILE & BRAD MEHLDAU (2017 2lp)
Bizzarra accoppiata, piano jazz più mandolino bluegrass, per uno dei dischi più belli del 2017 e non solo. Brad Mehldau, il più influente pianista jazz degli ultimi due decenni, e anche il più romantico. Chris Thile è un virtuoso del mandolino, con una voce suadente e un musicista capace di modernizzare l’ormai obsoleta tradizione bluegrass, rendendola più cool, ibridandola con influenze progressive. L’insolita combo, pianoforte + mandolino, si mostra a suo agio e confeziona 11 perle che mostrano due musicisti spontanei e che si divertono a calibrare e fondere i due stili. Il disco non solo è un punto d’incontro tra i due differenti approcci musicali, ma esplora i territori bluegrass, folk e country della tradizionale musica americana (Bob Dylan, Joni Mitchell, Elliott Smith, Fiona Apple e uno standard jazz). Non sono semplici cover, perché gli arrangiamenti e i suoni sono combinati a trovare un equilibrio raffinato ed espressivo fra le differenti anime. I momenti migliori però sono, a mio parere, i brani originali. Si tratta di canzoni ritmate e comunque, per nulla eccessive negli arrangiamenti. Il buon gusto melodico dei due non stanca e l’incontro si può dire più che riuscito.


Rob Mazurek / Exploding Star Orchestra, Galactic Parables: Volume 1 (2015 3 vinili trasparenti)
Album triplo, bellissima copertina apribile in tre parti con vinile bianco trasparente, in cui sono incisi 2 diversi live act con formazioni relativamente diverse. Con questo disco, Rob Mazurek dimostra di essersi veramente guadagnato un posto nella schiera dei maestri del jazz artistico di grande ensemble e di alto concetto, quel regno abitato da George Russell, Sun Ra, Wadada Leo Smith e pochi altri. Le prime tre facciate presentano un gruppo di dieci elementi registrato dal vivo in Sardegna, (Italia), nell’agosto 2013; le seconde tre facciate hanno otto musicisti (uno dei quali non era sul set italiano) in un concerto a Chicago nell’ottobre 2013. Molto interessante è notare che le stesse composizioni sono presenti in entrambi i set, anche se con arrangiamenti diversi. Quello di Galactic Parables: Volume 1 è uno dei progetti più ambiziosi del “cosmo” (il termine è quanto mai pertinente) di Rob Mazurek. Opera complessa e sfaccettata di argomento fantascientifico (i testi sono del poliedrico Damon Locks dei The Eternals), questo lavoro consente alla Exploding Star Orchestra di dare spazio a tutte le sue pazzesche potenzialità. È una musica che ha metabolizzato al meglio la lezione di Sun Ra, smussandone alcune ingenuità visionarie e ombreggiando tutto con un immaginario che si nutre delle intuizioni di un Samuel R. Delany o di uno Stanislaw Lem. Ma è tutta la linea di tradizione sperimentale afroamericana, dall’AACM al Miles Davis elettrico, a fornire spunti e materiale per questa complessa architettura sonora, talvolta sfiorando curiosamente, come era già successo in passato a Mazurek, suggestioni jazz-prog europee. Come si può capire dalla strumentazione, questo non è in alcun modo jazz tradizionale. È, tuttavia, esattamente quello che il jazz dovrebbe essere; avventuroso, improvvisativo, mettendo insieme suoni spontanei, spirito libero ed imprevedibile. Una musica bellissima, anche grazie al contributo dei tanti meravigliosi collaboratori (da Jeff Parker a Nicole Mitchell, passando per gli immancabili compagni Underground, sia di Chicago che di Sao Paulo) di Mazurek. Galassie in movimento, cangianti e emozionanti. Un affresco da ammirare ogni volta con orecchie nuove.
Karin Krog, Don’t just sing – An Anthology: 1963-1999 LP2
Pubblicata nel 2015 dalla Light In The Attic, questa splendida antologia compila sedici dei migliori brani dalla discografia della grande cantante jazz norvegese, coprendo quattro decenni di attività e contiene anche alcuni episodi del suo originalissimo capolavoro “Joy” del 1968; inoltre sono inclusi due brani inediti. Nata nel 1937 ad Oslo, la cantante Karin Krog è una vera istituzione della musica jazz norvegese: artista di grandissima versatilità, è capace di eccellere nell’interpretazione di brani standard come nelle improvvisazioni free jazz e post bop. Nella sua brillante carriera ha pubblicato una nutrita discografia, collaborando con strumentisti di assoluto valore come Jan Garbarek, Dexter Gordon, Kenny Drew, Archie Shepp, John Surman, Steve Kuhn e Niels-Henning Orsted Pedersen, alcuni dei quali sono presenti in questa raccolta.
Sélène Saint-Aimé, Mare Undarum (2020 ristampa 2021 ltd ed, numered 300 copies, clear)
La contrabbassista francese Sélène Saint-Aimé è stata una delle rivelazioni dell’anno 2020, grazie a diversi concerti e a questo suo primo disco. Mare Undarum significa “il mare delle onde”, il nome dato a uno stagno lunare, ma il titolo è anche un riferimento al nome dell’artista, Sélène, che era la dea della luna piena nella mitologia greca. Nel disco composto da nove brani, sei composizioni originali e tre “ricomposizioni” di opere di Steve Coleman, Heitor Villa-Lobos e Modest Mussorgsky, troviamo un jazz che attinge alle radici africane e caraibiche della contrabbassista. Un mix tra il calore degli ottoni, il legno degli archi e il ritmo del tamburo ka, che rivela influenze caraibiche e africane. Il disco affascina per la sua ricchezza, la sua poesia e la sua originalità; c’è un’incredibile duttilità vocale, ma anche ottimi arrangiamenti per sassofono, tromba, percussioni, violino e violoncello, nonché un contrabbasso che si libera nell’aria.


