// di Guido Michelone //
D. Così, a bruciapelo chi è Roberto Bonati?
R. È una domanda pericolosa, rispondendo si rischia di incensarsi. È difficile parlare male di sé stessi. Ma è anche una domanda interessante, soprattutto per me che potrei riuscire finalmente a capire – nell’uno, nessuno, centomila – chi sono… Un uomo appassionato, e anche ingombrante a volte, che ama il suo lavoro e che spera di riuscire sempre ad avere il coraggio e la forza per affrontare la responsabilità di ciò che desidera. E di non smettere di desiderare.
D. E ora cos’è e com’è il tuo nuovo album La fòla de l’oca/Over Time?
R. Ovviamente è un disco bellissimo… ed è il risultato di una commissione che ho avuto nel 2018 dall’allora assessore alla cultura di Parma Michele Guerra, oggi sindaco. Si stava componendo il dossier per partecipare al bando per “Capitale italiana della cultura” e mi fu chiesto di presentare un progetto da inserire nella programmazione. Il titolo del dossier era “La cultura batte il tempo” così decisi di lavorare sul concetto di Tempo e di scrivere per orchestra. Nell’idea originaria avrebbe dovuto essere coinvolto un ensemble di giovanissimi musicisti provenienti da diverse scuole europee poi il progetto, causa Covid, si è modificato e ho messo in campo la mia ParmaFrontiere Orchestra alla quale si sono aggiunti sei giovani provenienti dalle accademie di Oslo, Glasgow, Goteborg, Hamburg, Stavanger e Nurnberg. Ho voluto così riunire musicisti di generazioni diverse, nel segno di una continuità che ritengo importante. Ho cercato molti testi di riflessioni sul Tempo e, dopo molte letture, ho scelto Sant’ Agostino, Marco Aurelio, Eraclito e Whitman.
D. Ma da dove arriva questo curioso titolo metà dialettale, metà inglese, La fòla de l’oca/Over Time?
R. Viene da un antico e surreale ritornello che gira a vuoto su sé stesso, una ironica cantilena che mia nonna mi ripeteva spesso da bambino e che per me ha l’odore della terra, della nostra campagna, di un mondo che non è più ma nel quale sono le mie radici. È sembrato un titolo adatto per un lavoro sul Tempo, un progetto che prende avvio dalle riflessioni di ieri e cerca nel passato le strade per raccontare la complessità del nostro presente e il mistero del futuro. Una storia raccontata attraverso la musica, l’arte che, nel tempo, nasce e muore, scolpendone lo scorrere. Ci indica la musica la bellezza dell’istante, il quì e ora, senza passato, senza futuro ma nella memoria del passato e nel balzo verso il futuro. Un’arte che vive nel tempo e del tempo e che è metafora della nostra stessa esistenza essendo, come ci dice Seneca, sospesa “in un istante del tempo che fugge”.
D.Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
R. Il primo brano musicale che mi ricordo è il Peer Gynt di Grieg. Buffo no? Si vede che qualche cosa in Norvegia doveva succedere per me. Avevo un maestro alle elementari che ogni sabato portava il suo giradischi portatile in classe insieme ai dischi di musica classica con copertina bianca e nera della Fratelli Fabbri Editori e ci faceva ascoltare la musica. Ci faceva i dettati in classe con le poesie di Goethe e di Camillo Sbarbaro. Altri tempi, altri uomini. Mia madre racconta spesso che quando ascoltavo la musica le chiedevo come mai mi venisse da piangere… io le dico più che un indizio di talento forse era (ed è alle volte) un problema “psichiatrico”…
D. Roberto, ma quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?
R. Non lo so. Alla notte restavo sveglio e pensavo con grande agitazione che volevo fare il musicista. Credo che sia come l’amore. Non sappiamo mai perché amiamo qualcuno. Almeno a me è successo così.
D. Dopo una carriera professionistica dio quasi quarant’anni ti ritieni un jazzman o musicista jazz?
R. Un musicista di jazz e un contrabbassista perché un giorno nel 1977 un amico batterista mi ha fatto ascoltare, seduti nella sua Fiat 500, da un mangiacassette portatile il brano India di John Coltrane nel quale suonano due contrabbassisti, Jimmy Garrison e Reggie Workman, e il suono dei contrabbasso mi ha preso a tal punto che in quel momento ho deciso che avrei suonato questo strumento. Prima suonavo la chitarra e mi piaceva molto improvvisare, una specie di free indistinto ma era improvvisazione.
D. Ma cos’è per Roberto Bonati il jazz?
R. Una musica meravigliosa, forse l’ultima musica romantica. Una scuola di pensiero musicale e una musica, per sua natura, in movimento. Per me non è una musica di repertorio, l’accademia e il revival non le appartengono. Non mi importa nemmeno considerarmi un musicista di jazz. Mingus diceva che lui era un musicista folk. Personalmente non amo il termine “jazzista”, ci vedo un che di oleografico, mi puzza di mitologia del passato.
D. Ma cosa manca dunque al jazz attuale?
R. C’è troppa accademia oggi nel jazz, troppo “stile”, troppo desiderio di far sentire “come si suona bene”, troppo poca comunicazione, poche differenze, molta omologazione. C’è bisogno di un nuovo repertorio da suonare, di procedere in ambito compositivo, di riflettere sulla estetica e sulla etica musicale. Quale è la musica, le musiche di oggi? Il jazz si muove nel mezzo, tra le musiche, tra quella che veniva definita “musica colta” e la musica popolare. Ed è un percorso meraviglioso, un bel posto in cui stare a creare lavorando di sponda tra queste due realtà. Il problema è che nel popolare ci sta anche il bieco intrattenimento ed è lì che troppo spesso, negli ultimi vent’anni il jazz “è stato” e “si è” confinato. Troppo spesso è rimasto il “circo” del jazz.
D. E dunque è per te quale può essere un ‘segno fondante’ – per usare un’espressione del filosofo e teatrologo Virgilio Melchiorre – del jazz medesimo?
R. Ma il jazz è anche una scuola di improvvisazione, di composizione istantanea, una attenzione particolare verso il fare musica. L’irripetibilità del gesto musicale, del momento musicale, il suo sciogliersi nel tempo tipico di ogni fatto musicale è nel jazz portato a un livello ulteriore: l’essere presente nel continuo cambiamento. Può essere una bella scuola e non solo nella musica.
D. Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che tu, Roberto Bonati, associ alla musica, considerando anchew il tuo bagaglio di studioso?
R. C’è un aspetto mistico del fare musica, una sacralità che per me è la cosa più importante. La musica richiede attenzione, ascolto, chiede solo di essere ascoltata. Per me fare un concerto, salire sul palco o sedermi a comporre, sono atti che mi portano in una dimensione diversa dal quotidiano. Richiedono da parte mia la messa in gioco di una energia particolare, sempre positiva ma a volte anche difficile e dolorosa. Musica è entrare in uno spazio, in un sacro recinto, dove le cose possono essere, accadono, si rivelano.
D. Dagli altri preferisci essere considerato un contrabbassista, un bandleader, un compositore, un perfomer, un autore?
R. Un musicista.
D. Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
R. No, è curioso ma in tutti c’è qualcosa che mi sorprende soprattutto riascoltando dopo anni e non mi ricordo come ci sono arrivato.
D. E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
R. Se vado sull’isola deserta è per ascoltare il mare.
D. Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita? Iniziamo dai contrabbassisti?
R. Ho avuto la fortuna di incontrare e di studiare con alcuni uomini e maestri straordinari. Bruno Tommaso, col quale è nata e vive tuttora una profonda amicizia, è stato molto importante per me. Bruno ha rappresentato per me la figura di musicista a tutto tondo, vero uomo del Rinascimento che ha sempre combinato lo strumento con la composizione e il sacro col profano. Con lui ho anche mosso i primi passi strumentali nel jazz. Un grande maestro di contrabbasso classico è stato per me Emilio Benzi (che purtroppo ci ha lasciati troppo presto) primo contrabbasso della orchestra sinfonica della RAI di Torino. Mi prese come allievo dopo il diploma e dal punto di vista strumentale ed interpretativo mi si aprirono delle nuove strade. L’incontro e la lezione di François Rabbath è stata anche molto importante dal punto di vista tecnico ma anche per l’apertura musicale e l’idea di un proprio repertorio. Ho iniziato a suonare in solo dopo l’esperienza con Rabbath nel 1997. A questi aggiungerei anche nel jazz Miroslav Vitous dal quale, in un periodo giovanile, sono stato folgorato e col quale ho avuto modo di studiare.
D. Immagino che anche il feeling, da giovane, con grandissimi jazzisti italiani da Gaslini a Trovesi risulti per te importante…
R. Gli incontri professionali con Giorgio Gaslini e con Gianluigi Trovesi coi quali ho collaborato per oltre venti anni sono stati per la mia formazione fondamentali. L’idea di un jazz europeo, e le possibilità di confronto e di frequentazione internazionale, sono iniziate intorno al 1990 proprio con questi due musicisti. L’esempio di essere musicisti nel jazz con una storia europea alle spalle, con più tradizioni da combinare, con la musica popolare insieme alla musica afro americana e la tradizione classica europea, il concetto di Musica Totale. Ma credo che sia interessante intravedere un filo rosso di idee, per me importanti, che unisce Gaslini, Trovesi, Tommaso e il sottoscritto. Poi devo dire che sono molto curioso, e tutti i musicisti con cui ho suonato mi hanno lasciato qualche lezione importante, qualcosa da rubare, rielaborare e utilizzare.
D. E i contrabbassisti jazz stranieri che ti hanno maggiormente influenzato a livello stilistico?
R. Sono molti, da tutti si può imparare qualcosa. E nel tempo si cambia quindi ci sono stati periodi diversi con influenze diverse. Mingus, Scott La Faro, Miroslav Vitous, Gary Peacock, Barry Guy, Barre Phillips, Marc Johnson.
D. Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
R. Non ho un momento più bello. Mi ci fai pensare e mi rendo conto di avere avuto molti “momenti più belli” attraverso il mio lavoro. Sono grato per le tante esperienze, gli incontri, la musica, i viaggi e le cose che fin qui mi sono venute incontro.
D. Quali sono i musicisti con cui hai collaborato che ti hanno dato di più?
R. Se da una parte ci sono i Maestri che di cui ti ho parlato dall’altra ci sono tutti i musicisti con i quali ho collaborato in varie fasi della mia vita o collaboro da tanti anni, Roberto Dani, Riccardo Luppi, Michael Gassmann, Stefano Battaglia, Tony Moreno e tutti i musicisti della ParmaFrontiere Orchestra. Tutti musicisti che hanno interpretato e fatto vivere la mia musica. E anche il lavoro con i giovani musicisti e gli studenti mi ha sempre dato molto ed è fonte di stimoli importanti..
D. Un tuo ricordo di Giorgio Gaslini che lascia un vuoto nella storia del jazz tricolore?
R.Giorgio è stato un importante personaggio, un artista estremamente attivo con una energia molto particolare. C’è stata con lui una amicizia profonda all’interno e al di là del lavoro. Mi mancano le conversazioni con lui, lo scambio e le riflessioni comuni. Il suo insegnamento di “ricominciare sempre ogni giorno” mi accompagna. Ha fatto la storia del jazz ma siamo in un tempo in cui si rischia di perdere la memoria di personaggi come lui e questo è grave.
D. Come vedi la situazione della musica in Italia?
R. Credo ci sia molto da fare, siamo un paese sottosviluppato dal punto di vista della educazione musicale nonostante la creatività e la profondità dei musicisti italiani che sono spesso più apprezzati all’estero che non qui. Alcune cose stanno lentamente e con difficoltà cambiando ma manca un percorso educativo nelle scuole primarie, un percorso di attività corale, di pratica dell’improvvisazione, di ascolto e di conoscenza storica. Siamo nel ‘paese della musica’, abbiamo storicamente un talento speciale in questo e in tanti linguaggi artistici ma non c’è un vero progetto di politica culturale che favorisca la crescita e la diffusione della musica d’arte.
D. E cosa pensi della formazione scolastica e universitaria a proposito di jazz e di musica?
R. Per quanto riguarda l’istruzione superiore e i Conservatori vedo molto forte il pericolo dell’accademia e dell’omologazione anche nei linguaggi che appaiono più “contemporanei”. L’arte vive nelle differenze, nel rischio della differenza. Inoltre troppo spesso si insegna come si dovessero creare degli insegnanti e non dei musicisti.
D. E più in generale come si rapporta Roberto Bonati alla cultura in Italia?
R. Purtroppo vedo un grande degrado culturale. Mi capita spesso di sentire persone che si lamentano delle “difficoltà” che l’arte e la cultura oggi rappresentano, sembra quasi che la complessità, la profondità e la riflessione siano considerate un peccato, una cosa da evitare il più possibile. Sta nelle scelte politiche, nelle direzioni artistiche, negli artisti la responsabilità di una assunzione di rischio per favorire la qualità e la ricerca, per tener vivo il desiderio di una comunicazione profonda e la consapevolezza che un progetto di crescita culturale richiede impegno ed è cosa data ma una conquista.
D. Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
R. Ci sarà un nuovo progetto intorno a Italo Calvino per la ParmaFrontiere Orchestra che presenterò al festival ParmaJazz Frontiere in ottobre [2023]. Sto producendo due lavori discografici che sono stati registrati nello scorso autunno al festival: Si erano vestiti dalla festa, la dedica al centenario delle barricate del 1922 che ho presentato con la ParmaFrontiere Orchestra e il concerto The gesture of sound, the gesture of colours con la Chironomic Orchestra, l’ensemble di improvvisazione col quale utilizzo un vocabolario gestuale che ho chiamato “Improvised Chironomy” e sono in cantiere anche una registrazione e alcuni concerti con il trio Madreperla con Gabriele Fava ai sassofoni e Luca Perciballi alla chitarra. Mentre ti parlo, il progetto di un nuovo disco in solo mi frulla nella testa…
Discografia selezionata: Bianco il vestito nel buio (ParmaFrontiere, 2012); Un sospeso silenzio (mm Records, 2007); A Silvery Silence (mm Records, 2006); The blanket of the dark (mm Records, 2003); Le Rêve du Jongleur (mm Records, 2000).
