// di Francesco Cataldo Verrina //

È una faccenda assai complicata cercare di descrivere il suono di Joe Henderson dandogli una precisa definizione: troppi elementi di incostanza, ma solo in apparenza, ed un innato eclettismo. Nel 1958 Ira Gitler descrisse la musica di Coltrane come «fogli di suono», ma forse l’elemento distintivo di Coltrane era la sua costante imprevedibilità. Il poeta Ted Joans scrisse: «Il sax di Albert Ayler suonava come se gridasse la parola «fottiti» nella cattedrale di San Patrizio in un’affollata domenica di Pasqua». Ornette Coleman trovò la sua rappresentazione nel concetto di «armolodia», anagrammatica definizione, mai del tutto realmente chiarita. Per un artista come Joe Henderson, il cui suono sembrava scivolare tra stili già consolidati, forse non fu facile trovare una voce immediatamente distintiva. Il 23 maggio 1964 Billboard assegnò ad «Our Thing» di Joe Henderson solo tre stelle, specificando che si trattava di un disco con «potenziale di vendita moderato», segnalando difficoltà di fruizione per un pubblico medio e rilevando ulteriori riserve «commerciali» sull’attrattiva di quel tipo di hard bop, considerato troppo «avventuroso» per il tipico consumatore jazz di quel periodo.

Ciò non fa che confermare quanto Joe Henderson fosse avanti e anche «inadeguato» in un contesto come la Blue Note, che aveva fatto della «smerciabilità» dei prodotti la propria carta vincente. Va da sé che, con il senno di poi, possiamo rilevare molte delle contraddizioni che caratterizzarono il rapporto tra Joe Henderson e la Blue Note, anche se all’apparenza importante e «pesante» in termini quantitativi come registrazioni a titolo personale in veste di band-leader, piuttosto che in qualità di sideman. «Our Thing» fu il secondo album di Henderson per l’etichetta di Alfred Lion, pubblicato sei mesi dopo il debutto con «Page One». Il 9 settembre 1963 varcarono la soglia del Van Gelder Studio, insieme a Joe Henderson, Kenny Dorham e Pete La Roca, reduci della formazione precedente, ma nel line-up fu inserito, oltre al bassista Eddie Khan, il pianista Andrew Hill al posto di McCoy Tyner. Tutto ciò spostò le dinamiche di gruppo in una direzione completamente diversa, passando dalla propulsione ritmica onnicomprensiva di McCoy Tyner, al dialogo più cerebrale e intransigente di Hill con le avanguardie. Andrew Hill fu colui che, più di ogni altro, aiutò Joe a trovare la propria voce strumentale. Hill è noto per essere stato uno dei pianisti jazz più interessanti degli anni ’60, foriero di accordi atonali e di un melodismo viscerale e sotterraneo, ma anche in grado di suonare un hard bop energico e diretto.

Il concept sonoro è avanzato ed aperto all’influenza dei «dirottatori»di quel periodo, pur rimanendo nei canoni del tipico idioma bop. Durante la seduta vennero eseguiti tre originali di Dorham e due di Henderson. L’omogeneità è lievemente alterata da un blues up-tempo, «Teeter Totter», che contrasta con gli altri quattro componimenti imperniati su tonalità minori. Nonostante sia firmato Henderson, si potrebbe pensare che a comporlo sia stato Hill, il quale guida ed introduce il tema con i suoi caratteristici accordi obliqui e non convenzionali. «Pedro’s Tune» mostra il costante interesse di Kenny Dorham per la melodia dal sapore latino ottenendo un suono ricco di glissati; Henderson è costantemente inventivo, specie sui tempi più lenti, riproducendo negli assoli quel tipico movimento vorticoso; dal canto suo Hill si adatta a suonare in maniera piuttosto regolare. La title-track è un brano complesso con molti cambi di passo ed assoli brevi, precisi e controllati da parte di tutti i sodali. «Back Road» si dilunga eccessivamente stentando a tratti di trovare un quadratura, fortunatamente riscattato in gran parte da un assolo di Henderson e dall’esperienza di Dorham; per contro Hill sembra più trasversale del solito rispolverando il quaderno monkiano degli appunti. «Escapade» è un tema elegante e cupo che il line-up trasforma ancora una volta in un caso di eccellente musicalità. Nel complesso, Dorham rimane saldamente ancorato alla tradizione, ma il paesaggio spigoloso disegnato da Hill e l’uso dello spazio di Henderson, tracciato attraverso movimenti borderline, sposta «Our Thing» fuori da quella che potremmo definire l’area espressiva convenzionale della Blue Note, che solo dopo il passaggio alla Liberty, avvenuto nel 1967, comincerà ad aprirsi definitivamente alle sacre scritture del nuovo verbo del jazz. Hill ed Henderson bypassano i classici sistemi accordali, procedendo con maggiore libertà al limite della dissonanza. La reazione chimica diventa ancora più complessa grazie all’apporto di Eddie Khan al basso, musicista che troveremo in molti titoli di tendenza: «Modern Windows Suite» di Bill Barron, «Breaking Point» di Freddie Hubbard, «One Step Beyond» di Jackie McLean, «Ironman / Conversations» di Eric Dolphy e «Smokestack» di Andrew Hill.

Nel gioco delle porte girevoli alla Blue Note, Henderson parteciperà come gregario a «Black Fire» e «Point of Departure» di Hill, mentre riporterà McCoy Tyner al piano nel successivo «In ‘n’ Out». Il titolo finto romantico, «Our Thing», sembrerebbe ironico, ma forse era un velato cenno ad una sorta di personale «New Thing». In verità, il titolo dell’album suggerisce cooperazione, integrazione di idee, un senso di collaborazione e di impegno verso un obiettivo comune, tanto da risultare alquanto appropriato. L’immagine sorridente del ragazzo della porta accanto sulla copertina, non decisa da Henderson, servì a nascondere qualcosa di musicalmente molto più oscuro e complesso all’interno dell’album che la Blue Note, al primo impatto, non voleva far sapere. Pubblicato nell’aprile del 1964, «Our Thing» apre molti interrogativi sul complicato rapporto artistico del sassofonista con l’etichetta di Lion e Wolff. Negli anni trascorsi alla Blue Note Henderson ha diretto cinque album come titolare dell’impresa e partecipato in veste di sideman ad oltre venti sessioni affinando un suono personale e distintivo, nonché un suo vocabolario espressivo facilmente riconoscibile nel giro di una mezza dozzina di note. Basta ascoltare album seminali ed iconici, quali «Una Mas» di Kenny Dorham, « The Sidewinder» di Lee Morgan, «Song For My Father» di Horace Silver, «Idle Moments» di Grant Green, «Wahoo!» di Duke Pearson, «Basra» di Pete La Roca è «Real McCoy» di McCoy Tyner.