// di Guido Michelone //

D. Roberto, come definiresti oggi 2023 la tua musica?

R. Forse non esiste operazione più rischiosa e critica che “definire” qualcosa. Già faccio fatica a definire ciò che fanno gli altri. Ma poi, ha un senso ? Guarda ciò che è avvenuto più di recente con la questione BAM. Molti afroamericani hanno alzato una barricata su definizioni consolidate attribuendole ad un mercato controllato e manipolato dai bianchi, e del resto anche Ellington e pure Coltrane guardavano al termine Jazz con un certo sospetto. Non so, forse era giustificato creare delle distinzioni fino agli anni ’50, ma poi il Jazz è andato in pezzi e l’evoluzione del linguaggio, pur nella convivenza con un regolare flusso mainstream, ha cominciato a polverizzarsi in una miriade di diverse entità. Ancora per questioni di comodo per esempio si è ficcato tutto ciò che si faceva difficoltà a catalogare, sotto l’etichetta “Free”. Ma poi, cosa c’entra Ornette con Ayler, o Cecil Taylor con Trane ? Se parliamo di Bop, allora stilemi, stilisti, umori, strutture, riferimenti tecnico espressivi convergono, ma quando abbiamo cominciato a parlare di Fusion ? E’ possibile associare la scrittura dei Weather Report a quella dei Return To Forever ? Io la sento come una semplificazione se non come una forzatura, per non parlare del panorama contemporaneo in cui tutto è Jazz e niente è Jazz. Steve Coleman e Samara Joy, il trio Tapestry di Lovano e Jakob Collier…Non so, davvero è un esercizio cui volentieri faccio a meno.

D. Possiamo parlare di te come un jazzista (o jazzman)? Ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R. Il mio approccio allo strumento è Jazz. Il timing, la pronuncia, la ricerca del suono, l’inseguire l’idea di una frase, è profondamente legato ad una tradizione in movimento che dal blues arcaico passa attraverso Sidney Bechet, Johnny Hodges, Lester, Parker, Konitz, Trane, Lacy e poi Shorter. Ma poi fa i conti con alcune tecniche espressive più estese che appartengono al mondo europeo colto, a diverse radici popolari, e qui, secondo alcuni dovrebbe esistere una dicotomia ed un “tradimento” dei fattori e dei valori identitari della musica afroamericana. Ancora una volta lascio agli altri il giudizio. Quanto al senso che può avere oggi la parola Jazz direi che dipende di cosa stiamo parlando. Per me è l’universalità di una musica che ho sempre amato definire di matrice Afro-Europea, cresciuta ed espressa in una miriade di sfaccettature, ivi compresa la componente Ispanica, nella modernità di un paese, come l’America, prevalentemente privo di una origine musicale autoctona (fatta eccezione per quella degli Indigeni). Il Jazz come idioma, e quindi con tutte le sue componenti più o meno articolate, definite in parte ed in parte aperte alla trasformazione morfologica del tempo, è una musica che si è evoluta grazie al contributo di tanti soggetti ed al loro retaggio culturale. Questo non lo dico io e, senza scomodare Gunther Schuller, lo testimoniano personalità come Mike Zwerin da una parte e Roswell Rudd dall’altra. Ne parla perfino Jelly “Roll” Morton nelle sue interviste al pianoforte per la Libreria del Congresso. E ne parlano anche i tanti musicisti neri che nel periodo “arcaico” di questa musica hanno citato tra i vari, pure l’incipit della “Mazurka di Migliavacca”…. Questa è stata la sua forza, la capacità di evocare nei cittadini del mondo le memorie recondite, restituirle ad una fisicità attuale riportando in superficie tutte le istanze in esse contenute. Dalla rabbia e desiderio di rivalsa, al gusto sarcastico o ironico con cui commentare debolezze e pregi dell’umanità, al semplice sentimento amoroso e quello più smaccatamente sessuale. La sua forza è stata e lo è tuttora, il rappresentare questa infinita molteplicità di pensieri, grazie allo sforzo ed alla partecipazione di tutti i musicisti che vi hanno preso parte, i piccoli come i grandi. Tutto ciò ha contribuito enormemente a far sentire, in tutti coloro che vi si sono avvicinati, un senso di appartenenza, un senso di comunità, pur nella diversità delle espressioni. Questa straordinaria sintesi è stata per me la ragione per aderire non ad un mero “genere” musicale, bensì per riconoscere in questo luogo immaginario, un posto per “esserci” e dire chi sono.

D. E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R. Si può parlare di Jazz Italiano come di Jazz Irlandese o Taiwanese. Cioè parliamo di Italiani, Irlandesi e Taiwanesi che suonano Jazz. Quindi sarebbe meglio parlare di musicisti italiani che suonano Jazz, che è una cosa diversa. Tra l’altro nel nostro paese ci sono tantissimi musicisti che suonano Jazz con maestria e competenza di grande livello. Ma, come sempre è avvenuto, suonano una cosa la cui sostanza è molto simile ovunque. L’unico musicista Italiano che ha dato una impronta assolutamente significativa, esaltando alcuni caratteri peculiari della espressività che nella storia della musica è stata evidenziata come “Italiana”, vale a dire una solarità melodica, una propensione per la riflessione poetica afferente alla tradizione lirica, è senza ombra di dubbio Enrico Rava. Ecco qui mi sbilancio senza fatica e posso dire che Enrico porta l’Italia nel Jazz e senza bisogno di far ricorso alla “Jazzificazione” di temi popolari. Poi ci sono alcuni altri artisti che si caratterizzano alla grande nella comunità Jazzistica Italiana, ma per altri motivi e in direzioni diverse.

D. Molti ti identificano come musicista sperimentale: ma esiste ancora l’avanguardia che nel jazz si chiama (o chiamava) free o creative music?

R. Cosa vuol dire sperimentale ? Anche questo è un termine obsoleto, che appartiene ad un contesto confuso che non esiste più se non nella testa di aficionados poco informati. Cosa siamo, vaccini ? Terapie ? Braxton è un musicista sperimentale ? Lo è Evan Parker ? Oggi molte “sperimentazioni” sono diventate pratiche consolidate a tutti gli effetti. La respirazione continua, i suoni multipli, il pianoforte preparato, la conduction…sono tutti elementi ricorrenti di una grammatica che oserei dire storicizzata. Vedo piuttosto ancora margini di sperimentazione nel rapporto non banale tra uso dell’elettronica e strumenti acustici; nei sistemi di fruizione della musica dal vivo; nella interdisciplinarietà. Quanto al Free, alla Creative Music, all’Avanguardia davvero faccio fatica oggi a considerarle come categorie a sé stanti, sempre che come terminologia siano mai state sensate. Konitz decenni fa incise un disco molto libero dal titolo “Satori” in compagnia di Martial Solal, Dave Holland e Jack De Johnette, mentre Shepp da anni rilegge la grande tradizione afroamericana con quel suono inconfondibile e lacerante che aveva anche ai tempi di “Fire Music”. Il quartetto di Shorter fino alla fine ha suonato senza rete e l’altro giorno ho sentito un disco totalmente improvvisato dal vivo allo Small di New York suonato da Dave Liebman, Peter Evans, Tyshawn Sorey ed altri. La storia del Jazz passa dal Free ormai da molti lustri, e si spera sempre sia una grande Creative Music. Nelle frasi di Jarrett e Metheny è passato Ornette, e spesso molti giovani pianisti non avrebbero ragione di esistere senza Cecil Taylor con il suo splendido furore. Oggi il jazz è gravido di tutta la sua storia e non dovrebbe guardare sé stesso come ingabbiato in epoche e stili separati da camere stagne. Sarebbe paradossale, anacronistico e museale. Certo non ci sono più quelle figure carismatiche e tutto il contesto è cambiato favorendo una idea di Jazz più legata alla conservazione ed all’entertainment con un ritocco qua e là però, a cercare una avanguardia dei sentimenti, esiste ancora.

D. Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei? Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R. L’ambiente in cui nasci e cresci ha un influenza fondamentale sulla visione del mondo e sul comportamento. Ma anche qui farei dei distinguo. In molta provincia americana il Jazz non è una lingua familiare affatto, anche se in generale può esistere il retaggio in cui negli anni della depressione e del secondo conflitto mondiale gli americani si raccoglievano intorno alla radio per cantare i brani di Cole Porter e fischiettare i classici di Glenn Miller o Tommy Dorsey. E’ chiaro invece che a New York, in parte a Chicago, St. Louis e forse a L.A. e San Francisco, città in cui la densità di personalità ed eventi ha realizzato un humus utile alla formazione della grande tradizione musicale afroamericana, vi sia stata e tuttora vi sia una grande scuola e la conservazione di una memoria unica. La storia del Jazz in Europa si è mossa su coordinate differenti, evidentemente. Il peso della nostra cultura, secolarizzata tra elementi sacri e mecenatismo nobiliare, e la conseguente “supremazia” di una diversa tradizione musicale, ha condotto i musicisti a cercare il modo in cui poter entrare in un luogo diverso, amato, immaginario perché distante e sentirsi parte della sua moderna dinamica. Questo processo ha generato naturalmente diversi atteggiamenti che a partire dagli anni ’60 che hanno condotto una parte a inseguire per emulazione i modelli afroamericani, nella convinzione che quel perimetro consentisse sufficiente libertà per convivere con la propria identità, ed un’altra a considerare una via d’accesso attraverso diverse radici popolari e a creare un approccio allo spazio – tempo affrancato dalle matrici dello swing. Ora qualcuno ha visto in quest’ultimo caso una specie di frattura sacrilega, laddove altri l’hanno vissuta come l’unica possibilità di evitare il rischio di diventare dei cloni. In realtà tra questi due estremi c’è sempre stata continuità e contiguità. Basti pensare a due paesi su tutti, l’inghilterra e la Francia e a molti dei suoi musicisti. Quanto al Jazz ed i temi che ne hanno fatto e ne fanno parte, esso è stato a lungo un testimone del suo tempo, e come ogni forma artistica ne è stata la perfetta trasfigurazione espressiva. Non possiamo certo pretendere che un brano musicale sia la restituzione fedele di un discorso di Malcom X o la fotografia di un corteo piuttosto che un aperto e chiaro atto di denuncia, anche se proprio Mingus, Roach, e qualche altro ci ha provato. Il Jazz, la musica strumentale in genere si fa carico di veicolare suggestioni su di un diverso piano di lettura e portare l’ascoltatore a guardare al mondo che lo circonda con i suoni che ne traducono le forme, i significati.

D. Il jazz ha un’ideologia? Deve essere ‘impegnato’? In che modo la musica si rapporta alla politica?

R. E’ una musica di per se “impegnata” ed “Impegnativa”. Con sfumature diverse e graduali lo è per chi la fa e per chi la ascolta. Ma lo è ogni forma artistica che si elevi oltre ogni equazione elementare. Ciò non vuol dire necessariamente che deve essere sempre criptica, ostica, impenetrabile, anche se una buona parte di cosiddetti appassionati riuscirà ad apprezzare il venti percento di un assolo di Chet Baker. Anche Prelude to a Kiss o perfino Moonlight Serenade hanno il loro grado di complessità, ma c’è un livello di comunicazione con la quale abbiamo maggiore familiarità. In fondo è lo stesso per l’Opera Lirica….Il Jazz non lo capisco, molti dicono. Ma cosa capiscono della Turandot ? Il libretto, la storiella, e qualche aria facilmente riproducibile sotto la doccia. Ma i processi armonici di Puccini? Conoscere ed apprezzare l’Arte, e quindi anche il Jazz, richiede impegno. Quanto al rapporto tra Jazz e Politica posso dire, come ho già fatto altre volte, che dobbiamo pensare alla Polis, cioè al complesso delle attività della vita pubblica dei cittadini del mondo. Qui si operano delle scelte importanti, discriminanti, a favore o sfavore di un benessere diffuso, ecosistemiche. Sono innanzitutto scelte culturali e ogni scelta culturale ha la sua estetica, i suoi simboli, i suoi gesti. Ogni atto musicale è un gesto ed ogni artista ne diventa responsabile. Combattere per affermare delle idee musicali è un atto politico.

D. Come vivi il jazz in Italia anche in rapporto alle tue esperienze in molti altri Paesi?

R. Sono anni che rimugino di scrivere una “lettera aperta al mondo Italiano del Jazz”. Che contribuisca a sfatare miti e regole inossidabili, dimenticanze madornali, collusioni plateali e modulazioni clandestine verso cattivissime abitudini. Una “lettera aperta” a tutti noi che facciamo musica, a chi la ascolta o dice di ascoltarla, a chi ne parla e ne scrive, a chi la manipola, a chi dice di sostenerla, a chi s’inventa marce e partite di calcetto di Nazionali dello Swing, introiti derivati e connessi, ai suoi coach, ai suoi Osho, ai suoi Marchionne che usano le persone per farne marketing e collezionismo da primi della classe, a tutti coloro che ci girano intorno ma che è solo un fondale per giustificare altro. Una “lettera aperta” che non può essere pacificante e anestetica, ma che deve essere un richiamo alle responsabilità di tuttiPoi però, pensando a quanto siamo piccoli in un mondo alla deriva con criticità infinitamente più grandi, mi dico: “Ma a chi cazzo gliene può fregar di meno di una lettera aperta al Jazz Italiano” ?

D. Cosa ne pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana (di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R. Questo è un tema cruciale. Purtroppo oltre che osservare ciò che si è perso negli anni, non ho altro che domande. Questa transizione digitale favorisce una conoscenza trasversale (e quindi anche la storia, le motivazioni, le trasformazioni…), oppure si concentra solo sull’affermazione di un presente in rapida mutazione ? Il tempo che quelli della mia generazione e di quelle precedenti si sono dedicati per assimilare e crescere con oggetti, luoghi, collegamenti, è oggi tempo perso ? E’ stato sostituito da qualcos’altro di pari efficacia o maggiore efficacia ? Perché la velocità di produzione e consumo attuale garantisce solo relazioni prossime agli algoritmi, che a mio avviso sono strumenti stupidi e che instupidiscono. A parte alcune lodevoli iniziative volontarie, esiste un disegno, un progetto, una attenzione dedicata, una tutela affinché le nuove generazioni abbiano accesso ai patrimoni che possediamo ? Sarà poi vero che a vecchi patrimoni si sostituiscono nuove prospettive come sostengono i positivisti attuali ? Non so, a me sembrano solo feticci.