// di Francesco Cataldo Verrina //
La Verve non è mai stata un’etichetta all’avanguardia, tesa alla sperimentazione, piuttosto ha sempre rappresentato un modello di conservazione e un paradigma di restaurazione del jazz tradizionale, soprattutto un porto franco per tanti jazzisti sul viale del tramonto o per musicisti borderline da proporre ad un pubblico generalista. Un’organizzazione imbattibile nella riesumazione di cadaveri eccellenti, ma capace di iniziative lodevoli sul piano della grande distribuzione commerciale di un jazz da scaffale da mettere subito nel carrello della spesa. Per la Verve tutto poteva essere jazz, anche il suo esatto contrario, purché vendibile e lontano da conflitti razziali ed ideologici. «Herb Hellis Meets Jimmy Giuffre», potrebbe essere uno dei tanti dischi inutili e fini a sé stessi pubblicati dall’etichetta di Santa Monica, quanto meno con una visone retrograda e stantia del jazz, se i pensa che in quello stesso anno uscirono «Kind Of Blue» di Miles Davis, «The Shape Of Jazz To Come» di Ornette Coleman e «Mingus Ah Um» di Charles Mingus.
«Herb Ellis Meets Jimmy Giuffre» è uno di quegli album combinati (l’uno o l’altro incontrano l’altro o l’uno), così popolari soprattutto negli anni ’50. A parte le loro origini texane ed il fatto di aver frequentato la stessa scuola Herb Ellis e Jimmy Giuffre non avevano musicalmente molto in comune. La formazione di supporto è piuttosto ampia: Art Pepper e Bud Shank (alto sax), Richie Kamuca (sax tenore), Jimmy Giuffre (tenore e baritono), Lou Levy pianoforte, Herb Ellis e Jim Hall (chitarra), Joe Mondragon (basso) Stan Levey (batteria), tutti musicisti con un pedigree importante ed iscritti all’albo d’oro del jazz di quegli anni, ma nel disco fanno «le belle statuine». La loro presenza è finalizzata al semplice accompagnamento dell’astro nascente Herb Ellis (secondo i desiderata della Verve), non ci sono assoli tranne i suoi, neppure da parte del cointestatario del progetto che si limitò a fare degli ottimi arrangiamenti, almeno adatti alla circostanza.
Registrato all’Hollywood Radio Recorders il 26 marzo 1959, venne pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti, nel novembre del 1959, in un numero di copie assai limitato: qualcuno riporta 6500. Pare che al produttore Norman Granz interessasse far emergere solo la figura di Herb Hellis, un musicista borderline ed ai margini del jazz. «Mia madre mi diceva che ho sempre suonato blues», raccontò Herb a Jack Tracy in un’intervista a Down Beat. Qualche ragguaglio più preciso su Herb, il blues d il jazz ci viene fornita da Gene Roland suo compagno di scuola insieme a Jimmy Giuffre e Harry Babasin al North Texas State Teachers Collage. »Quando Herb iniziò a frequentare la nostra scuola, era un chitarrista hillbilly. Ma dopo aver ascoltato i dischi di Charlie Christian con il sestetto Goodman, sembrò trasformarsi, dall’oggi al domani, in un jazzista. Aveva già una buona tecnica». In realtà c’è sempre stato molto hillbilly (nella connotazione country-direct del termine) in ogni lavoro di Herb, ma soprattutto in quel suo modo terroso di suonare il blues, tipico di chi era nato nel paese dei cow-boys per antonomasia. «C’è qualcosa di hillbilly», sosteneva Roland, «in gran parte del jazz, ovunque, in quanto fa parte dell’influenza generale della musica folk pre-jazz». Con tutta probabilità l’idea di Roland era legata alla visone di un jazz primordiale ed in fase di definizione, comunque contaminato, tipico di certe zone Westsouthern degli USA, da cui lo stesso Giuffre si sarebbe presto allontanato, pur mantenendo quella sua connotazione di «jazz delle paludi» come lo definiva Charles Mingus.
Qualcuno obietterà dicendo che trattasi di un album in puro stile West Coast Jazz. Per facilità di catalogazione si potrebbe optare per tale definizione, ma neppure più di tanto: «Herb Ellis Meets Jimmy Giuffre» è un disco comunque piacevole da ascoltare, un ottimo sottofondo da lounge bar o da bagnasciuga. Si potrebbe dire che indirettamente la genialità di Norman Granz decretò la fine dello stile West Coast e l’avvio dello Smooth Jazz, almeno vent’anni prima. Lo stesso Jimmy Giuffre migrerà presto verso una scrittura ed un’esecuzione più moderna ed esplorativa che, qualche tempo dopo, nel 1961, avrebbe sostanziato in due suoi classici album, «Fusion» e «Thesis». Immaginate di avere una sezione fiati di alto livello (come indicato), seguita da una sezione ritmica di tutto rispetto e comprensiva di un chitarrista del rango di Jim hall, che si limita a sostenere le progressioni piuttosto convenzionali, per quanto gradevoli, di un oscuro chitarrista blues spacciato per fenomeno jazz da un operoso Norman Granz capace di fare di necessità virtù in ogni circostanza. Lo stesso titolo appare un po’ fuorviante: i brani contenuti nell’album sono tutti basati – come dicevamo – sugli assoli della chitarra di Herb Ellis, con l’eccezione di un riff piuttosto vago di Giuffre in un asua composizione, «Remember». Quantunque musicisti del calibro di Jim Hall, Bud Shank, Art Pepper e Richie Kamuca sembrino dei comprimari automatizzati ed imbavagliati negli arrangiamenti a circuito chiuso di Jimmy Giuffre, il disco scorre piacevole e potrebbe fare la felicità di qualche neofita, specie ascoltando «Patricia», una seducente ballata a firma Art Pepper, «A Country Boy» di Herb Hellis, «You Know» di Jimmy Giuffre o «Goose Grease», lavoro a quattro mani Hellis/Giuffre, e perfino nella ripresa di alcuni evergreen come «My Old Flame» e «When Your Lover Has Gone». In fondo, alcuni sono passati alla storia del jazz per molto meno.

