// di Francesco Cataldo Verrina //
Le produzioni discografiche della Felmay Records hanno un’energia estranea al flusso della corrente mainstream, sembrano provenire da un universo parallelo, un mondo di suoni distillati dal menti geniali che si uniscono per costruire una dimensione alternativa, libera nella forma e nella sostanza, che procede per vie poco battute dai comuni mortali. «The Dreamtime» di Daniele Cavallanti & Songlines Band è un costrutto all’avanguardia, aperto alla contemporaneità della musica improvvisata ma implementato attraverso i dettami di una scuola di pensiero di alto lignaggio che affonda le sue radici nella grande stagione del free jazz mondiale. Sassofonista tenore e compositore milanese, Daniele Cavallanti, classe 1952, co-leader con il batterista Tiziano Tononi dello storico gruppo Nexus, nonché membro fondatore della celebre Italian Instabile Orchestra, ha sempre guardato oltre l’orizzonte del prevedibile, soggiogato da un desiderio di sperimentazione costante, non nascondendo mai il proprio interesse per i mondi altri, come la cultura aborigena australiana ed i libri di Bruce Chatwin, di cui parla nelle note di copertina e che ha ispirato il titolo dell’album.
L’opera di Daniele Cavallanti, musicista dai demoni creativi sempre irrequieti, sempre sul piede di guerra e pronto a camminare sul ciglio del burrone per vie oblique, lascia pochi punti di riferimento a chi non è disposto a mettere in discussione lo schematismo tipico di un certo jazz accademico. Nei suoi dischi molte certezze sembrano essere messe in discussione, lasciando in un angolo il tipico metodo scolastico del interplay surrogato e di maniera. Le architetture sonore di Daniele Cavalcanti sono un sanguigno antidoto al prevedibile e al deja-vu, specie quando i compagni di viaggio rispondono ai nomi di Roberto Ottaviano sax soprano, Alessandro Castelli trombone (right channel), Tony Cattano trombone (left channel), Roberto Frassini Moneta bass (right channell), Andrea Grossi basso (left channel) e Tiziano Tononi batteria e percussioni. Sin da un fugace ascolto si percepisce che l’intento di Cavallanti e soci è stato quello di canalizzare l’ascoltatore in una duplice dimensione ricorrendo allo stratagemma della bicanalizzazione del doppio strumento, tecnica peraltro usata dai grandi maestri del free jazz.
Si potrebbe dire che l’habitat sonoro creato a Milano il 22 novembre del 2022, presso lo studio Real Sound Recording, non sia dissimile da certe atmosfere tipicamente newyorkesi o americane, dove il sabotaggio del sistema armonico tradizionale non produce mai eccessivi effetti collaterali sulla melodia e la godibilità del costrutto concettuale coerente che, sia pure locupletato attraverso un perpetuo by-play ed una reinvenzione tematica costante, riesce nell’obbiettivo di coinvolgere il fruitore in una dimensione altra e multidirezionale. Il pensiero corre a Charles Mingus, almeno nell’idea di mettere in piedi un mini-ensemble con quattro strumenti a fiato, ma il disco va oltre e tende alla spiritualità e al terzomondismo ritmico di Pharoah o al verticalistico desiderio di trascendenza coltraniano, ma è, al contempo, irruento e giocoso in maniera albertayleriana. Mai prevedibile e fine a sé stesso, «The Dreamtime», peraltro realizzato con una formazione inusuale, almeno per gli standard odierni, fa suo il quaderno degli appunti ornettiano ritrovando la forma, dopo aver deformato i moduli tradizionali.
Tutte le tracce dell’album, quattro di Cavallanti ed una di Tononi, recano una dedica e forniscono un indirizzo, più che musicale, ambientale e geolocalizzante: «The Dreamtime» (To The Native People Of Australia and Bruce Chatwin) dura oltre diciassette minuti ed è la degna title-track di un lungo viaggio per terre lontane, antiche popolazioni ed orizzonti sonori inesplorati, attraverso cambi di passo e di mood che fungono da spartiacque tra i vari capitoli di una narrazione sempre in crescendo, dove il contrasto e l’incastro tra la sezione fiati e la retroguardia ritmica raggiunge degli alti livelli di eccellenza, specie negli assoli di Cavallanti e Ottaviano che animano un’irrequieta prima linea. «Black Leo» (To Pharoah Sanders ed Angelo Tarocchi) è un’altra lunga odissea sonora spalmata sul tempo di quattordici minuti e due secondi, propedeutica ad un’architettura sonora ribollente ed a mosaico, a tratti sospesa, dove lo spirito estremo del «Faraone» e quello del Mingus, più arcigno e razionale, sembrano ignorarsi, scontrarsi, evitarsi e compensarsi. Segue «Mbizo» (To Johnny Dyani). La dedica a Johnny Mbizo Dyani, sfortunato contrabbassista Sudafricano di colore morto a soli quarant’anni, collaboratore tra gli altri di Steve Lacy e Don Cherry, diventa un indicatore di marcia ben preciso, questa è la traccia dell’album più afro e terzomondista, alimentata dalle ritmiche di Tononi.
Con «Sean Tones» (For Sean Bergin) dedicata ad un altro musicista sudafricano bianco legato alle avanguardie, sassofonista e flautista, è un segnale ben preciso. In questo caso possiamo parlare di un minimalismo in crescendo, dove le ritmiche ed il suono flautato proveniente dal front line sembrano percorrere traiettorie multitematiche, a tratti afro-caraibiche, mentre il suono bicanalizzato con l’apporto dei tromboni e dei due bassi s’intensifica sempre di più. Il finale del disco è segnato da «Stalking Moon» una lunga suite in tre parti composta da Tiziano Tononi. Il concept ritmico-armonico è strutturato come la trama di un film in tre tempi: A-«The Capture» (La cattura), B-«Ambushes» (Gli agguati) e C-«Conclusion» (Conclusione): musicalmente è la quntessenza di un jazz multistrato e free-form, con qualche riferimento al Mingus più orchestrato, in cui momenti di estrema abrasività e dissonanza si ricompongono in uno sviluppo tematico fortemente melodico e metabolizzabile anche dall’ascoltatore meno ferrato in materia. «The Dreamtime» di Daniele Cavallanti & Songlines Band rappresenta la supremazia di un jazz ipermodale a volo libero, che a tratti guarda nello specchietto revisore e versa notevoli tributi nelle casse di un inevitabile passato fatto di gesta eroiche e nomi illustri, ma declinato senza complessi, dove l’ensemble, nessuno escluso, supera sé stesso portando il fruitore oltre il tempo, lo spazio e le mode.
