Il musicista e compositore giapponese Ryuichi Sakamoto è morto all’età di 71 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro. Lo ha reso noto la sua agenzia, a distanza di qualche giorno dalla scomparsa, avvenuta martedì. Nato a Nakano nel 1952, e considerato uno dei primi sperimentatori tra la musica etnica orientale e i suoni elettronici dell’Occidente, Sakamoto aveva ricevuto numerosi riconoscimenti in carriera tra cui il premio Oscar nel 1987 per la colonna sonora del film L’Ultimo imperatore, diretto dal regista italiano Bernardo Bertolucci.
// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
Ho avuto l’onore e il piacere di conoscere e di frequentare Ryuichi Sakamoto inizialmente grazie a Jaques e Paula Morelenbaum, poi ospitandolo in concerti a Catania e a Milano, in solo e con Alva Noto. L’ultima volta che gli ho parlato è stato nel 2020, su richiesta di Giorgio Ferrara, che voleva ospitarlo a Spoleto, al Festival dei Due Mondi. Era già malato, si stancava facilmente e non reggeva a pubbliche esibizioni che durassero più di una mezz’ora. Era in partenza per Londra, dove credo dovesse esibirsi con David Toop. In ogni caso, era chiaro che non pensava di poter programmare la sua vita con grande anticipo.
La prima immagine che ho di lui è curiosa. Era un uomo finissimo, minuto ma solidamente costruito, molto muscoloso e mi ricordo le sue braccia letteralmente ricoperte di morsi di zanzara a Taormina, sul palcoscenico del Teatro Antico. Di gentilezza squisita e spesso lontana, sapeva anche rompere improvvisamente il muro della riservatezza, il che costituiva sempre, con quella scintilla di vicinanza che scoccava di colpo, un momento di rara piacevolezza. Aveva, ecco, momenti di affettuosa sollecitudine che rivelavano in lui non un’indifferente imperturbabile ma una quasi infantile, femminea, tenera forma di timidezza. Il suo era il fascino di un uomo e artista profondamente colto e conscio delle propria tradizione e al contempo radicalmente aperto alla curiosità, alla ricerca di affinità, con una delicatezza musicale quasi schubertianamente “gemütlich” ma temperata da una vena di poetica pudicizia.
Non voglio descrivere una carriera musicale sempre più sofisticata e per certi versi sempre più distillata, disseccata, essenziale ed introversa, vi è chi sa farlo sicuramente meglio di me. Come molti intellettuali della sua generazione, Sakamoto sapeva porsi nella posizione di cerniera fra Oriente e Occidente, ma al contrario di altri egli non intendeva trovare miracolose alchimie combinatorie, equilibri sincretici, convivenze e coniugazioni improbabili o fittizie: egli possedeva una chiara visione del mondo che modellava una sua personale e originale estetica. Non ricercava a tutti i costi un ecumenico legame fra le diversità e alterità culturali, piuttosto egli leggeva il mondo attraverso una sensibilità cosmopolita da grande viaggiatore ed esploratore che faceva sempre ritorno a casa, alle proprie origini, alla propria identità. Tutto ciò che egli suonava -persino la sua vaporosa, elefante, aristocratica lettura delle pagine di Jobim che pareva, appunto, ideata da un artista di Ukiyo-e- era manifestamente segnato da un’impronta nipponica, non vi era il desiderio di una sintesi ch’egli forse reputava impossibile.
L’arte di Sakamoto, quella, se vogliamo, di un Hiroshige musicale, è stata intrisa di una coscienza profonda e orgogliosa delle proprie radici, aldilà dei molti e diversi materiali usati. Non vi era in lui il trauma della generazione precedente, costretta a venire a patti con l’arte occidentale vincitrice del Secondo conflitto mondiale: Sakamoto sapeva disporre di più sponde senza ambasce e senza conflitti, sicuro di sé e della propria identità. Artista apertissimo, si diceva, ma al contempo in possesso di una visione che una sintesi aveva certamente operato, ma della propria cultura d’origine. Egli non leggeva l’Occidente, che era solo una fra le tante lenti che egli usava per scrutare e descrivere il Giappone contemporaneo, il vero scopo della sua arte complessa, orgogliosa e sottoposta a continue revisioni, limature, riletture, alla ricerca di una stabilità mai ottenuta del tutto. Un intellettuale lontano eppure vicino come pochi, pochissimi.
