// di Guido Michelome //

D. Ciao Freddy, come definiresti la tua musica?

R. Se non parliamo di generi, la definirei musica d’ascolto, da intrattenimento un po’ raffinato, ecco. Un tempo oltreoceano la chiamavano “Bachelor music”, musica per scapoli. Comunque, ho sempre coltivato la musica sincopata, specialmente sul suo versante italico. Però non amo molto le etichette: vogliamo chiamarla Swing? Ok, però ho suonato e inciso anche musica di genere molto diverso, dal folk alla cameristica, dalla bossanova alla musica contemporanea.

D. Possiamo parlare di te come un jazzista (o jazzman)? Ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R. Pochi mi hanno considerato un jazzista. Io stesso ho qualche remora, mi basta essere definito musicista. Jazz, ormai, è un termine un po’ troppo onnicomprensivo per i miei gusti…

D. E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R. Beh, possiamo parlare di jazz italiano quando non solo è suonato o scritto da artisti italiani ma è fatto “all’italiana”: certamente è esistita questa identità, non so se è tuttora distinguibile da quello globale.

D. Molti ti identificano come protagonista della canzone jazzata o del sincopato tricolore; è vero?

R. Suono e promuovo questa musica da più di trent’anni, però non sta a me dire se sono un ‘protagonista’.

D. Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei? Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R. Credo che il differente approccio sia connaturato con le condizioni di vita e il contesto socio-culturale. Quindi per forza il jazz europeo ha qualcosa di diverso da quello d’oltreoceano e la sensibilità degli afroamericani solitamente differisce da quella dei ‘bianchi’. Sono però contrario ad innalzare steccati artificiali. Il jazz non deve, ma può talvolta parlare anche di temi impegnati. Teniamo presente che non è nato per quello bensì per far divertire. A mio avviso è bello far divertire, comunicare una sana leggerezza senza rinunciare alla qualità artistica.

D. Il jazz ha un’ideologia? Deve essere ‘impegnato’?

R. Non mi piace quando l’arte abbraccia un’ideologia. Quasi sempre sono venute fuori cose bruttine o, come minimo, prodotti che invecchiano presto. Si possono anche lanciare messaggi attraverso la musica ma ciò dev’essere fatto con classe e intelligenza, e sono pochi, a mio avviso, gli artisti in grado di farlo in questi termini.

D. In che modo la musica si rapporta alla politica?

R. La musica dovrebbe essere sostenuta dalla politica, non viceversa.

Sostenuta, intendo, senza chiedere nulla in cambio.

D. Come vivi il jazz a Sanremo, la città del Festival e del Club Tenco?

R. Il jazz resta minoritario tra le preoccupazioni di chi indirizza le sorti della città della musica, perché viene considerato tuttora un genere ‘di nicchia’. Lo vivo quindi come una sorta di boccata d’aria in mezzo allo smog delle canzonette.

D. Cosa ne pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana (di cui il jazz ovviamente fa parte da anni)?

R. Non mi sembra un periodo particolarmente florido per la cultura italiana, jazz incluso. Si può solo sperare in tempi migliori, cercando nel frattempo di fare qualcosa affinché vengano preparati.