// di Francesco Cataldo Verrina //
Voi direte, loro chi? Beh, coloro che sembrerebbero avere in mano i destini del jazz. I «soliti noti», o come dice qualcuno i»morti di fama», ma io aggiungo, anche di fame, perché li vedo (virtualmente on line) sempre lì a lesinare una conferenza, un dibattito, un work-shop, una lectio magistralis. Qualcuno s’inventa dei veri propri stage itineranti, dei seminari o dei webinari a pagamento per parlare di jazz, sottraendo spazio e soldi a chi il jazz lo suona. Nonostante «loro» – o se preferite essi – la «loro» presunta sapienza dispensata come sublime conoscenza, le cose per il jazz italiano non vanno proprio bene. Specie per chi il jazz lo suona: molti musicisti italiani vivono di stenti e sono eternamente esclusi dal lauto banchetto degli eventi e dei festival. Viviamo un paradosso tutto italiota, dove a lamentarsi spesso a criticare le istituzioni, sono proprio coloro che ricoprono cariche pubbliche e cattedre universitarie e fanno simposi sulla «semicroma saffica innamorata di una chiave di basso alle prese con un ostinato swing».
Per capirci, se le cose vanno male, il problema non è solo strutturare ma infrastrutturale. Che fai adesso parli come loro? A Roma direbbero «famose a capì», se le le cose nel jazz in Italia vanno male a livello divulgativo, comunicazionale, e perché no, anche di diffusione commerciale, la colpa è vostra cari «loro», cari «essi» e qui si potrebbe aggiungere anche una F. Siamo in primavera e cominciano a proliferare festival e manifestazioni jazz o para-jazz. Niente di nuovo sotto il sole, assiatiamo alla solita coventio ad exclundendum: c’è chi fa incetta di presenze e s’abbuffa..»e chiste invece e rà na mano s’allisciano, se vattono se magniano a città» (Pino Daniele, in epoche non sospette). Peggio quando il cattedratico schizzato, diventa anche l’organizzatore, il direttore artistico di manifestazioni a vario titolo, dove porta immediatamente il suo carrozzone di giannizzeri, nani, saltimbanchi, ballerine e leccaculo.
In questo confusionario Tin Pan Alley dell’universo jazzistico italiano esistono solo due stagnini, o meglio due presenze costanti, due incorreggibili giocatori a tutto campo, ma non prendetevela con loro, sono solo due onesti lavoratori dello spettacolo e pagano regolarmente ENPALS, ossia Paolino e Stefanino su comò, figli di Ercolino sempre in piedi, che sono imposti a livello ministeriale come quinta dose del vaccino anti-jazz in tutti i festival della Penisola. Nei prossimi mesi si temono manifestazioni no vax, no-jazz, no-martini, no-party, no-tengo dinero. Mettiamo anche il fatto che gli Italiani siano un popolo di creduloni, tutti figli di mamma e della canzonetta sanremese, ma davvero pensiamo che certi cattedratici, taluni musicanti, certi musicologi abbiano meriti particolari o conoscenze inedite sul jazz tanto da poterne reggere o cambiare le sorti? E poi che ci vuole a spendere i soldi pubblici, quelli dei contribuenti, per sostenere manifestazioni musicali ibride ed inutili, finanziare cattedre universitarie che producono ignoranti funzionali e che servono solo ai titolari per promuovere sé stessi ed il proprio super-Io famelico. Davvero pensiamo che Tizio sia meglio di Caio o di Sempronio?
Avete forse dimenticato che non siamo in Danimarca, per dire, ma siamo nella terra dei cachi e dei campanelli, per non parlare della terra dei fuochi, ma soprattutto viviamo nella patria della Camorra, di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta, della Sacra Corona Unita, della Massoneria, dei Servizi Segreti Deviati. L’Italia è politicamente ed istituzionalmente ancora un paese basato sui clan amicali, territoriali e familistici, fatto di padrini e cumparielli, un sistema tardo-feudale ancora basato sui potentati: feudatari, vassalli, valvassori e valvassini. Avete visto chi bazzica in Italia dalle parti del ministero della cultura? Rebus sic stantibus, vorrebbero farci credere che talune cattedre universitarie siano meritorie e che i musicologi che siedono su quegli scranni siano gli unici depositari della verità nel mondo del jazz? Io non ci credo e tu? Adesso non dirmi che non l’hai bevuta mai neanche tu, tanto per non passare da contenuto scrotale. Che ce ne facciamo di musicologi-cattedratici che non ascoltano i dischi, non seguono il nuovo jazz italiano ma parlano sempre di loro, dei loro libri, di quelli degli amici, ma soprattutto parlano sempre tra di loro ed ogni tanto con Dio.
In sintesi, se in italia esistono quattro musicologi a cottimo che detengono il potere come degli antichi scriba e custodiscono per conto degli Dei lo scrigno della sapienza, a volte sono anche «direttori artritici» di festival claudicanti, affollati dai soliti noti; quindi, ad abundantiam, se le cose in Italia per il jazz non vanno bene, soprattutto la loro reiterata e proterva azione non suscita l’interesse del «popolo» e dei media. Di chi è la colpa? Evidentemente di «loro» e di «essi», tertium non datur!
