// di Guido Michelone //

D. Così, a bruciapelo chi è Filippo Bianchi?

R. Uno che ha girato parecchio. Quando avevo tre anni ci trasferimmo da Firenze a Roma, poi a Londra, poi ancora a Roma e di nuovo a Firenze. E non avevo ancora compiuto dieci anni. Ciò ha significato nutrire un’anima nomade, diventare una pianta acquatica con radici piccole e mobili, non affezionarsi troppo a quello che hai intorno, alimentare la curiosità. Poi ho cominciato a viaggiare da solo. Fatte tutte le “campagne” della mia generazione: il Marocco, le isole, l’Afghanistan… Ho imparato ad arrangiarmi e a difendermi. Ho anche imparato che molti cibi che pensavo non mi piacessero non erano poi male, ed ero stato costretto ad assaggiarli perché non c’era altro. Funziona anche per certe forme artistiche: inizialmente uno è diffidente, poi impara a conoscere meglio e magari apprezzare.

D. Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?

R. Non ho un primo ricordo. Te ne posso elencare alcuni. Il jazz l’ho incontrato in casa, da molto piccolo. Stiamo parlando della seconda metà degli anni 50, e ovviamente le mie preferenze andavano al rock ’n roll, che esplodeva anche come moda (i blue jeans, le camicie a scacchi), però in queste musiche che ascoltava mio padre c’era qualcosa di molto intenso: la St. James Infirmary suonata da Armstrong era davvero struggente, la signora che cantava How Long Has this Been Going on di Benny Goodman si sentiva che era proprio esausta, e il lattaio amico di Fats Waller (My Friend the Milkman) aveva l’aria di essere un tipo simpatico. E poi c’era la magia della batteria di Gene Krupa, su cui la voce di Anita O’Day si distendeva con un timing folgorante. Questi frammenti si sono sedimentati nella mia coscienza musicale, e me li sono portati dietro tutta la vita. Poi arrivarono i Beatles, che dopo la fase iniziale hanno avviato una spinta progressiva verso la complessità e ampiezza di visione, sentimento che hanno trasmesso a tutta quella generazione. Poi comparve una fidanzatina inglese, che era amica di Dave Holland, e mi portò a salutarlo in camerino nel concerto di Davis al teatro Sistina nel giugno ’69: attraverso di lei ho scoperto Roland Kirk, Bill Evans, Mingus, Monk, Davis e Coltrane, Pharoah Sanders, Jimmy Giuffre. Così è cominciato il distacco dal pop e l’avvicinamento al jazz: quando hai sentito Kirk poi fai fatica a prendere sul serio come flautista Ian Anderson, che pure era un eccellente showman.

D. Quali sono i motivi che ti hanno spinto a occuparti di musica e in particolare di jazz?

R. Sono legati a quanto detto sopra. A un certo punto uscì fuori una musica chiamata “progressive”, ma il progresso era concetto dominante in quegli anni da ben prima. A parte le scoperte già citate, hanno avuto un ruolo importante i gruppi in cui si cominciava a improvvisare: Pink Floyd, Soft Machine… Delizioso il racconto di Robert Wyatt, il quale all’intervistatore che chiede “Cosa vi ha spinto verso l’improvvisazione?” risponde “Avevamo poco repertorio, quindi bisognava allungare i pezzi”. Le cose erano semplici e nuove. Tutto era in divenire e c’era una feconda confusione fra i generi, gli stili, le generazioni. Ti ho detto di quando il quintetto di Davis mi aveva davvero “spettinato il cervello”, nel 1969. Non passa un anno e nello Speakeasy londinese semideserto si ripete una simile esperienza: ascolto i Lifetime di Tony Williams, con John McLaughlin e Larry Young, ma al trio, che avevo sentito sul disco “Emergency”, si è aggiunto Jack Bruce che non solo suona il basso ma canta!! Fanno anche dei pezzi dei Cream! Purtroppo di tutto ciò non v’è documentazione nel disco “Turn it Over”. Che musica era? Non se lo chiedeva nessuno. Di certo era una musica mai sentita prima.

D. Ci puoi parlare della tua esperienza di direttore del mensile Musica Jazz?

R. Confesso di non essere stato un avido lettore della rivista prima di diventarne direttore, quindi inizialmente è stato un po’ come stabilirsi in casa d’altri. Naturalmente volevo dare a Musica Jazz un mio indirizzo, ma senza negare la sua storia. In questo senso Gian Mario Maletto mi ha molto aiutato a bilanciare i due aspetti. L’editore Hachette Rusconi non aveva alcun interesse strategico per la rivista: il focus era com’è ovvio sulla moda, visto che nel campo avevano corazzate come Marie Claire, Elle, Gioia… Questo mi ha consentito di lavorare in piena libertà, senza alcun condizionamento, dovendo rispondere solo al mercato, che mi accolse bene, sia sul piano delle vendite che della raccolta pubblicitaria. Mi sono tolto molte soddisfazioni. Le prime cose che mi vengono in mente sono un inedito di Georges Perec su “La chose” e la rubrica “Visto da fuori”, in cui ho pubblicato interviste con Carolyn Carlson, Bernardo Bertolucci, Angela Davis, Paolo Fabbri, Stefano Benni, Ennio Morricone, Geoff Dyer, Amiri Baraka, Laurie Anderson, Enzo Jannacci, Miriam Makeba, Lawrence Ferlinghetti, Herman Leonard, Arto Lindsay, Alvin Curran, Caetano Veloso, Ciprì & Maresco, Robert Wyatt, Christian Marclay, Virgilio Savona, Karlheinz Stockhausen, Sting, Louis Andriessen, Jacques Derrida, Altan, Jon Hassell, Giovanna Marini, Elvis Costello e tanti altri illustri frequentatori del jazz in vario modo. In un ambito simile, mi piace ricordare anche l’intervista di Paolo Fresu a Pinuccio Sciola. Oltre che l’“oggetto” in sé, mi hanno interessato soprattutto gli “sguardi sul jazz”: le rubriche di Daniel Soutif “Il secolo del jazz” (che poi dette il titolo a una splendida mostra e a un mio libro) e “Jazzthetics”, in cui si esploravano i rapporti fra il jazz e il resto della cultura del XX Secolo, le pagine dedicate a grandi fotografi (Roberto Masotti, Giuseppe Pino, Nina Melis). Più “internamente” al jazz mi hanno dato grande soddisfazione le collaborazioni internazionali (con Mike Hennessey, Brian Priestley, Philippe Carles, di nuovo Soutif) e alcuni scritti di grandi musicisti: l’inserto su Joe Henderson affidato a Dave Liebman, quello di Herbie Nichols fatto da Roswell Rudd, quello di Maurizio Giammarco su Wayne Shorter, un articolo di George Lewis su Fred Anderson. Questi sono elenchi molto parziali e mi rendo conto piuttosto lunghi: d’altra parte in undici anni è naturale che un po’ di sogni li abbia realizzati. Ho cercato sempre di interessare il lettore, ma anche di pubblicare cose che sarebbe piaciuto leggere a me.

D. Ma cos’è per te il jazz?

R. Ho sempre amato la definizione di Diego Carpitella: “un modo secondo cui un qualsiasi materiale tematico può essere suonato”. Naturalmente è anche molto di più. Una volta, chiacchierando del rapporto fra il jazz e le altre arti, Steve Lacy mi disse: “La parola ‘colore’ è senza dubbio uno dei cardini del discorso, così come la parola ‘libertà’. Il jazz è indipendenza e interdipendenza. Voglio dire che non c’è nulla di simile al mondo, non c’è altra attività che sia così radicalmente basata sull’invenzione collettiva, salvo la politica forse… Per il solo fatto di essere fondato su un impegno collettivo, il jazz diventa un soggetto molto interessante in termini allegorici, diventa ‘la grande metafora’. In fondo possiamo dire che il jazz è un virus, un virus di libertà, che si è diffuso sulla terra, ‘infettando’ tutto ciò che ha toccato: il cinema, la poesia, la pittura, la vita stessa”. Il jazz è al tempo stesso l’arte che più si fonda sull’espressione della personalità individuale (“A genius is the one most like himself”, Thelonious Monk) ma al tempo stesso deve coniugarla in un collettivo (“The first thing that I look for in a musician is if he knows how to listen”, Duke Ellington).

D. Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?

R. La condivisione. L’idea di Alfred Schutz, ebreo allievo di Husserl, scappato dalla Germania, come Adorno e tanti altri, è molto seducente. Schutz arriva in America nel ‘39, scopre il jazz e comincia a elaborare una sociologia di tutt’altro segno: la società non è l’”esecuzione di uno spartito di regole”, ma è “making music together”… E a questa formula straordinaria ispira la sua opera: il sociale è molto più “far musica insieme”, gioco di turni, di arrangiamenti, che non regola. Secondo Shutz, l’universo di senso del jazz è uno dei modi per capire meglio come funzionano le cose. Una rivelazione per chi era abituato a pensare il mondo come regole codificate la cui eventuale trasgressione o esecuzione differenziata garantisce fenomeni di libertà, come nella visione dell’artista romantico.

D. Tra i dischi che hai allegato a MJ ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?

R. Uno no. In generale quando vado via mi piace lasciare dietro qualcosa di più di quando sono arrivato. Quindi ti direi tutti gli inediti: di Joe Henderson, Gato Barbieri, Anita O’Day, Uri Caine, Joe Lovano, Aldo Romano, Steve Lacy, Misha Mengelberg, Annette Peacock, Don Byas, Jeanne Lee, George Lewis, Stefano Bollani, Fabrizio Bosso, John Surman, Mal Waldron, Danilo Rea, Peter Brötzmann, Han Bennink, Richard Galliano, Antonello Salis, Gianluigi Trovesi…

D. E tra i dischi jazz italiani che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?

R. Davvero non saprei. Probabilmente “Gospel”, di Mario Schiano e Guido Mazzon.

D. Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?

R. Tanti e per mia fortuna tutti buoni. A parte mio padre, Alberto Rodriguez, Luigi Pestalozza, Paolo Fabbri, Daniel Soutif, Misha Mengelberg. Sono lieto di poter dire – non senza sorpresa – che mi hanno sempre tutti trattato da pari, piuttosto che da allievo. Una volta Daniel mi disse che da me aveva imparato molte cose. Osservai che anche io ne avevo apprese parecchie da lui. Risposta: “Sì, ma le cose che ti ho insegnato io te le può insegnare qualsiasi professore, mentre quello che mi hai insegnato tu lo potevo imparare solo da te”. Immagino volesse dire che trovava interessante il mio modo di cercare dei percorsi plausibili nel gran casino che ho in testa.

D. Chi nel jazz italiano è fondamentale o significativo per la storia del jazz medesimo (non solo nazionale)?

R. Storicamente senza dubbio Enrico Rava, il “trombonauta”, come lui stesso si definì in uno spettacolo teatrale di tanti anni fa. E Aldo Romano, che ha pur sempre conservato la cittadinanza italiana. Quando ero nella giuria del Jazzpar erano sempre nella mia lista e alla fine, dopo qualche anno, l’ho spuntata con ambedue. Le motivazioni sono semplici, ne elenco quattro: il lavoro che hanno fatto su se stessi per migliorarsi, essendo partiti da una tecnica strumentale abbastanza rudimentale, che è molto coerente con lo spirito “evolutivo” del jazz; l’essere sempre stati là dove succedevano le cose, nel free jazz storico, in quello piuttosto “crossover”, nella free music europea, nei ripensamenti e affinamenti successivi (in compagnia di Carla Bley, Roswell Rudd, Michel Portal, Steve Lacy, Jean-Luc Ponty, Keith Jarrett, Bud Powell, Lee Konitz, Don Cherry, Gato Barbieri, Albert Mangelsdorff, per tenere la lista breve); la straordinaria vocazione di talent scout (fra le loro scoperte, quattro nomi a caso: Stefano Bollani, Stefano Di Battista, Paolo Fresu, Gianluca Petrella); una capacità di creare stupende melodie più unica che rara, spesso i luoghi comuni hanno un fondamento e quei due sanno veramente “cantare”, come capita agli italiani. Nelle generazioni più recenti aggiungo Bollani, che oggi nel suo strumento ha pochi rivali a livello mondiale.

D. Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di giornalista/organizzatore?

R. Probabilmente la commemorazione del primo anniversario della strage di Bologna, il 2 agosto del 1981. L’assessore alla cultura Sandra Soster mi aveva chiamato per fare una rassegna di orchestre, conclusasi pochi giorni prima in piazza S. Stefano, cui avevo invitato la Globe Unity, la Mitteleuropa, l’orchestra di Gil Evans, la Big Band Rai diretta da Alex Schlippenbach, il Willem Breuker Kollektief e gli Urban Sax. Questi ultimi due gruppi furono anche i protagonisti del concerto di Piazza Maggiore. Guardando le foto degli Urban Sax, e gli inquietanti scenari post-catastrofici che evocavano, sarò senza dubbio parziale nel ritenere che raramente le commemorazioni successive abbiano raggiunto un tale grado di pertinenza. Mi fu complice nell’impresa di governare i sassofonisti e i vocalist di Gilbert Artman il giovane Lorenzo Pallini, che probabilmente ricorda episodi notevoli. Mi limiterò a citarne uno. Era da poco passato il fatidico ’77, in cui perfino il grande sindaco Zangheri era stato oggetto di satira. L’atteggiamento di chi all’epoca lavorava nell’amministrazione comunale per reazione era di assoluta imperturbabilità: tutto era possibile, tutto era ammesso. Il responsabile musica del Comune era un simpatico e distinto signore che si chiamava Pellegrini. Durante una riunione, Artman ci illustrava le necessità della band. Ad ogni richiesta Pellegrini annuiva dicendo scì, (in italiano sì), imperturbabile appunto. Artman: “servirebbero una cinquantina di tricicli dell’immondizia, col cantante a pedalare e un sassofonista in ogni bidone”; Pellegrini (prendendo appunti): “scì”. Artman: “vorremmo mettere dei fumogeni nella fontana del Nettuno mentre dei musicisti ci suonano dentro; Pellegrini: “scì”. Artman: “alcuni sassofonisti saranno collocati sui cornicioni di Palazzo Re Enzo”; Pellegrini: “scì”. Si continuò con un’altra dozzina di richieste di analogo tenore, sempre seguite da approvazione. Finché Artman disse: “infine servirebbe un elicottero dal quale, in un cesto, scenderanno quattro sassofonisti”… e fu a quel punto che Pellegrini sbottò in un “eh no, ma scenta scignor Urban”… Fu così che naufragò l’idea di far scendere quattro sassofonisti in un cesto aggrappato a un elicottero. Però quando gli Urban Sax cominciarono a passeggiare sul cornicione la piazza gremita fu percorsa da un brivido. Ciò che oggi non credo sarebbe possibile.

D. Quali sono i jazzisti con i quali sei entrato maggiormente in sintonia (soprattutto italiani)?

R. Sono molti: Sonny Rollins, che da decenni mi onora di un’amicizia fraterna, Misha Mengelberg, Aldo Romano, Antonello Salis, Max Roach, Evan Parker, Han Bennink, Elvin Jones, Steve Swallow, Paul Rutherford, John Scofield, McCoy Tyner, Enrico Rava, Mario Schiano, Sean Bergin. Questo limitatamente alle frequentazioni di lungo periodo, cementate dall’aver fatto insieme anche produzioni, dall’aver condiviso sentimenti, viaggi, pranzi e cene, lunghe notti di chiacchiere/discussioni.

D. Come vedi la situazione della musica oggi in Italia?

R. Come quella del resto del mondo, non particolarmente ricca di stimoli. D’altra parte ho deciso che la musica sarebbe stata la mia vita in un tempo nel quale la devozione alle nuove idee era assoluta: la mente era continuamente alimentata di stimoli, sollecitazioni e sfide. Oggi spesso ci si preoccupa di “vendere il prodotto” prima ancora di stabilire cosa in effetti sia. Magari il mondo è ancora pieno di cose da ascoltare interessantissime e inedite, io però non ne sono al corrente. O forse, legittimamente, sono solo un po’ stanco di cercarle.

Jack DeJohnette & Filippo Bianchi