// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
Chi è stato in Sudafrica per più di qualche giorno ha buone possibilità di assistere a uno spettacolo affascinante, che testimonia l’incrocio per taluni versi forzato fra diverse tradizioni culturali e religiose: il Sudafrica, infatti, è la nazione che, tradizionalmente, ospita il maggior numero di bande di ottoni in Africa. Una tradizione che nasce ufficialmente nel 1838 (più precisamente, il 12 settembre 1838, all’inaugurazione della Genadendal Training School), grazie all’uso della Chiesa Morava di accompagnare i canti durante i riti liturgici con formazioni strumentali, e che si espande lungo la dominazione britannica, fino a radicarsi come tradizione profondamente seguita e amata dalla popolazione anche non cristiana (parallelamente, già negli anni Venti dell’Ottocento, bande di ottoni si esibivano a Cape Town, in un uso che si diffonderà ulteriormente con le troupe di minstrel bianchi, e poi africani, verso la fine dell’Ottocento).
Le brass band sudafricane nascono sul modello delle bande militari europee, fino ad assumere anche fisionomie estremamente più consistenti, grazie alla partecipazione entusiasta di una popolazione abituata a esprimersi collettivamente attraverso la musica. Al contrario delle brass band americane, esse in maggior parte veicolano un sentimento religioso comunitario: il repertorio è composto pressoché esclusivamente da inni religiosi, tradizionali e non, che pur mantenendo in alcuni casi parte delle originarie fattezze europee si sono trasformati nel tempo, aderendo alle diverse tradizioni musicali locali e assumendo così una fisionomia del tutto originale. Caratterizzate da divise diverse e dalla presenza di un tamburo maggiore alla guida, le bande sfilano in occasione di cerimonie religiose o pubbliche, intonando materiali in cui possono identificarsi lacerti della tradizione europea, canti della tradizione locale, canti religiosi fusi in un’affascinante propensione all’innodia, con una coralità di valore simbolico e del tutto aderente a valori musicali autoctoni.
Già nell’Ottocento, compositori come John Knox Bokwe, Enoch Sontonga, il Reverendo Tiyo Soga scrivevano inni corali su strutture idiomatiche Xhosa che furono peraltro presentati nella prima, acclamata tournée dell’African Choir, nel 1891; il divieto imposto dalle chiese cristiane di praticare le tradizioni musicali locali obbligò le popolazioni a praticare le forme corali anche al di fuori delle pratiche liturgiche, il che allarmò le autorità religiose. Nel 1911, presentando la prima raccolta di canti Zulu per uso laico, “Amagama Abantu”, l’autore, Dr. J. L. Dube sosteneva di avrei creato la raccolta per “porre fine alla cattiva abitudine che si sta diffondendo nella comunità nera, di usurpare la musica del Signore e ballarla a causa della mancanza di musica ricreativa”.
La diffusione della musica “makwaya” (musica d’intrattenimento basata sull’innodia di derivazione protestante) era stata, d’altronde, una necessità, come annotava Bongani Mthethwa, studioso della musica Zulu: “La repressione delle attività musicali nelle missioni, lasciando al popolo l’inno come unica scelta per tutte le attività musicali, portò alla modifica dell’innodia. L’inno diventò quindi un canto di lavoro, un canto d’amore, un canto di nozze e commento di molte altre situazioni cerimoniali, tra cui la pura e semplice esecuzione di un canto per il puro piacere.”