// di Francesco Cataldo Verrina //
È convinzione che gli anni ’70, musicalmente parlando si siano conclusi nel 1983/84, vuoi per un l’ingombrante colpo di coda di taluni fenomeni che tendevano a sconfinare e debordare, vuoi perché i primi anni ’80 pagavano un forte tributo in termini stilistici al decennio precedente, soprattutto nell’ambito di quei generi di matrice africano-americana legati idealmente al jazz nell’accezione più larga del termine. In quegli anni, imperversa il cosiddetto crossover-funk, una mistura di suoni dance, nati dalla confluenza del funk metropolitano, della disco di matrice soul e del rock più vicino all’R&B. È proprio di questo periodo uno dei capolavori del «crossover», un pezzo rimasto ad imperitura memoria tra le meningi di DJs e cultori del genere, ossia «You Got The Power» dei War.
La storia del gruppo, però, parte da molto lontano ed inizia con l’incontro fra Howard Scott ed Harold Brown, ai quali si uniscono B.B. Dickerson, Charles Miller e Lonni Jordan: siamo sul calare degli anni ’60 e, con il nome di Creators, i cinque musicisti cominciano a girare per tutto il Sud della California a caccia di fortuna, esibendosi nelle situazioni più improbabili. Visti i modesti risultati, decisero di dedicarsi esclusivamente alla composizione e alla strutturazione di un proprio sound, cercando di ottenere uno stile ed un timbro che li potesse distinguere dalla moltitudine; soprattutto scelsero un altro nome: The Night Shift. Anche questa decisione non sembrò appagarli, né riuscì a produrre alcun interesse mediatico intorno alla band, fino a quando non decisero di chiamarsi War. Il nome War, venne dato per indicare, a detta di Lonnie Jordan, una battaglia «combattuta attraverso le note degli strumenti e non con i proiettili e le armi ». L’incontro con Eric Burdon, anima inquieta e vagante per le contrade d’America, ma già consegnata agli annali della storia della musica contemporanea, un bianco con una voce carica di balckness, amante del rock-blues, gia leader degli Animals, segno per i War un nuovo inizio e soprattutto un viatico per la notorietà internazionale. «Eric Burdon Declaser War» e «Black Man’s Burdon» furono il frutto di un lavoro stimolante e prolifico, che fece conoscere il gruppo in tutti i circuiti del rock, specialmente in quegli ambienti bianchi ed europei, solitamente disinteressati alle vicende degli afro-americani, ma che, per contro, li allontanò dall’R&B e dai circuiti black almeno fino ad un certo momento della loro carriera. Per verità storica va detto che i War, sin dal loro primo apparire, erano sempre stati un composita formazione musicalmente meticcia e multi-etnica nei proposti, soprattutto aperta ad ogni tipo di collaborazione ed infiltrazione creativa.
Oltre che con Eric Burdon, il gruppo strinse sodalizio con uno dei più quotati armonicisti in circolazione, tale Lee Oskar, danese di origine, ma nero-americano nei propositi. A distanza di tanti anni, «Eric Burdon Declares War» rimane un capolavoro assoluto, sincretico e basato sul principio dei vasi comunicanti. Un progetto ambizioso, in cui coabitavano e confluivano anime diverse, un album cristallino nei suoni ed esplosivo nell’impatto vocale. Tra i solchi dell’album, Burdon unisce la sua voce ruvida e marcatamente bluesy ad un’incontenibile carica sensuale, adeguatamente supportata dalla band, la quale ne intuisce i propositi lasciandosi trascinare dall’impeto del «capo guerriero», ma ritagliandosi il necessario spazio espressivo, soprattutto in virtù di componimenti assai dilatati e sviluppati per agevolare l’improvvisazione collettiva. L’intuizione di creare una sezione fiati composta solamente da un sax tenore ed da un’armonica si rivelò una scelta azzeccata. La band registrò l’album nel gennaio del 1970, dopo essere stata in tour per circa un anno.


L’album fu la prova tangibile che Eric Burdon fosse davvero l’unico esponente band R&B britanniche degli anni Sessanta (primo esempio di cover band istituzionalizzate) per il quale la black music degli Stati Uniti significasse davvero qualcosa da vivere direttamente sul campo di battaglia ed in mezzo alla gente di colore. Ciò che egli riesce a tirare fuori da sé stesso come cantante in «Eric Burdon Declares War» è assolutamente fenomenale. I War erano erano convinti sostenitori dell’armonia razziale e della multi-etnicità, tanto che Burdon sembrerebbe calato in un alveo naturale. Per metafora, la sua pelle cambia colore, dalle vene inizia a zampillare sangue blues, mentre la sua anima si libera inter pares, incalzato dal supporto di un ensemble solido che distilla una convincente miscela progressiva di soul, funk, rock e R&B con sentori di psichedelia. L’influenza di Burdon e l’impianto progressivo divennero una costante dei War anche dopo l’abbandono del cantante inglese, il che ha contribuito a differenziarli da altri gruppi funk-R&B. Tre dei cinque brani proposti in «Eric Burdon Declares War» sono divaganti progressioni blues-jazz-psichedeliche volutamente errabonde e con l’aspro sapore della jam sanguigna ed improvvisata. «Tobacco Road» e «Blues for Memphis Slim», durano oltre i quindici minuti. «Spill The Wine», invece, si caratterizza come il momento più riuscito ed ispirato dell’album. Nel formato singolo a 45 giri è stato anche il primo successo commerciale dei War e l’ultimo di Eric Burdon. A suggello del disco originale, «You’re No Stranger», traccia eliminata in molte delle ristampe successive, si soistanzia come un breve componimento basato sul sentimentalismo d’avanguardia e dominato dal pianoforte in stile latino. Il concept complessivo dell’album costituisce un vero giacimento psycho-funk, trascurato e abbandonato, che meriterebbe sicuramente di essere annoverato tra i classici del genere insieme a quelli di Funkadelic e Sly & The Family Stone.
L’album venne registrato, dal 2 al 4 gennaio 1970, presso gli studi Wally Heider di San Francisco in California e dato alle stampe nell’aprile 1970 con un titolo emblematico e provocatorio, «Eric Burdon Declares War (In A Pacifist World Of Hippy Culture)» (Eric Burdon dichiara guerra nel mondo pacifista della cultura hippy). L’artwork della copertina con quel doppio braccio alzato, che va a formare in maniera ideale la lettera «W» di War, diventa molto evocativo e antirazzista. Il microsolco inizia con un componimento dal taglio fusion, «Vision Of Rassan» (dedicato a Roland Kirk) con una sezione centrale soul-rock-jazz che vira presto verso un’ambientazione full-brass, decisamente più asciutta e funkiness, percorrendo la linea più stretta possibile tra il morboso R&B dei Rolling Stones e il funk psichedelico di Sly e Clinton. Gli accordi di pianoforte in levare sostituiscono i riff della chitarra, mentre congas, clap e tamburelli volteggiano intorno a un metronomico groove di batteria funkifed, fiati ed armonica colmano gli spazi ad abundantiam, dal canto suo Burdon ripete all’infinito il nome di Kirk. «Tobacco Road» è un animale blues a sangue caldo e in levare, segnato da una lunga improvvisazione in cui Burdon, attraverso un rabbioso speech, declama e urla al mondo idee a vario titolo. «Blues For Memphis Slim», con i suoi diciannove minuti, apre una prateria all’interplay strumentale con Burdon che, a briglie sciolte in un rap ante-litteram, parlotta a tempo di musica di sesso e morte, quasi a voler prendere in giro Jim Morrison.
La separazione da Eric Biurdon avvenne senza traumi, tanto che «All Day Music» e «The World Is The Ghetto» garantirono alla discografia le medesime credenziali qualitative da parte dei War, sia pure orfani di Burdon, fino a giungere a «Deliver The World» e «Live», in cui le atmosfere si avvicinano molto alla funk di matrice R&B e meno al soul-rock-jazz di partenza. Harold Brown ha sempre sostenuto: «La nostra non era musica rock, né soul, forse la migliore definizione sarebbe progeressive-soul, ma non accettiamo neppure questa etichetta. Io la chiamo jazz della strada, poiché ogni suono che scaturisce dai nostri corpi, ci arriva da innumerevoli situazioni esterne, anche perché il musicista non può vivere su una nuvola». In realtà i War fecero della contaminazione tra R&B, jazz, funk e sonorità latine un contrassegno saliente ed un’arma di seduzione di massa. Il loro stile influenzò progressivamente numerosi artisti bianchi della scena rock. A partire dalla seconda metà degli anni ’70, essi fecero una sorta di viaggio a ritroso riavvicinandosi alla nucleo centrale della cultura musicale afro-americana, senza tralasciare l’innato vezzo per la contaminazione con altri generi limitrofi. Alcuni pezzi dei War, specie in Inghilterra, vengono ancora riproposti nelle serate house-funk. Talune suite strumentali per le peculiarità del groove, la tipologia di suoni e per l’uso delle ritmiche ben si amalgamano con le più recenti creazioni house di marca R&B. Appare chiaro che un qualunque DJ in grado di passare la musica dei War, riesca ad elevarsi una spanna sulla moltitudine standardizzata, uscendo dal magma caotico ed indistinto dell’omologazione.

