// di Francesco Cataldo Verrina/

Chiunque sia interessato a tracciare e soprattutto a comprendere la progressione artistica e l’evoluzione sonora di John Coltrane, dovrebbe soffermarsi molto su questo album e scandagliarlo nota per nota, solco per solco, accordo per accordo. Non c’è solo l’incontro al vertice fra due giganti del jazz, che già di per sé potrebbe essere un’argomentazione forte e convincente, ma emerge la genialità di un Coltrane che si esprime sempre ai massimi livelli quando condivide il proscenio inter pares. L’abilità di John Coltrane consisteva nel saper prendere un «qualcosa» dagli altri, per poi rimodularlo secondo la propria cifra stilistica e creativa. Qui Trane è il secondo nome in cartellone, ma diventa protagonista regalando alla chitarra di Burrell un ruolo di primo piano nella storia del jazz moderno. Senza un certo tipo di supporto la chitarra nell’ambito del bop rimane uno strumento di contorno se non marginale.

È superfluo chiedersi: cosa ne sarebbe stato di questo disco senza un sassofono, ma soprattutto senza il sax di John Coltrane. La risposta è scontata: la quadratura di Coltrane è palpabile e la calibratura degli interventi è da manuale, mentre attraversa ed esamina le sue opzioni con glissanti raffiche a doppio tempo che si affermano e poi si ritirano nella più ampia estensione di ogni suo assolo. Perfino in «Big Paul» di Flanagan, dove l’assolo dura quasi cinque minuti ed il pianista stabilisce una melodia bop concentrica e rilassata che bilancia perfettamente il cronometrato apporto ritmico di Chambers e di Cobb. L’innesto di Coltrane squarcia il cielo come un arcobaleno dopo una tempesta. Il disco nasce come ultima session alla Prestige del assofonista. L’idea fu quella di chiudere il contratto mettendo insieme un’ottima squadra di comprimari, più che di gregari: John Coltrane tenor sax, Kenny Burrell chitarra, Paul Chambers basso, Jimmy Cobb batteria e Tommy Flanagan piano. Il set sviluppò due composizioni di Flanagan, altre due prese dalla tradizione ed un originale composto di Kenny Burrell.

I brani di Flanagan sono quelli che conferiscono maggiore vivacità all’album; ed è proprio con «Freight Trane» che Coltrane serve uno dei piatti migliori, inseguendo lo spiritato groove sviluppato dalle mani di Burrell in modalità accompagnamento. Il chitarrista lancia spunti che sembrerebbero ispirare non solo i contributi dal contrabbasso di Chambers e della retroguardia ritmica, ma anche dello stesso Coltrane, che mette in atto la pratica dello sheets of sound con un fraseggio fatto di scale in rapidissima sequenza, con tantissime note, dai registri più bassi a quelli più alti, come se la musica stesse slittando o scivolando, soprattutto sviluppando un up and down progressivo su un apiattaforma sonora apiù livelli. Lo standard «I Never Knew» si caratterizza con l’elegante ricamo di Burrell, ma appena il chitarrista cede le redini a Coltrane, le differenze nei loro stili diventano evidenti ed abissali, con Burrell che esegue un lavoro metodico ed organico, mentre Trane elabora strutture musicali col baricentro spostato verso un imminente futuro. Parte di questo ragionamento può essere applicato anche a «Lyresto», pezzo scritto da Burrell, dove i due co-leader commerciano con garbo e incorporano, reciprocamente, idee e spunti provenienti ora dall’uno, ora dall’altro.

Pur non essendo così pronunciata la disparità in cui i due capitani eseguono la partitura, la performance può essere classificata come un case-study di contrasti unificanti e complementari. «Why Was I Born?» è una flessuosa ballata dove la chitarra di Burrell ed il sax di Coltrane si plasmano a vicenda in una sorta di fermo immagine irripetibile, nel quale i due vengono catturati ad imperitura memoria. Insieme tessono un misterioso e intricato arazzo sonoro, esprimendo pathos e liricità in assoluta purezza, mentre il resto dei comprimari, come le stelle, stanno a guardare, piegandosi al passaggio dei due protagonisti principali. Uno degli elementi rivelatori e dei punti di forza di questo disco è proprio la moderazione dell’ensemble, che accetta la proverbiale «pausa per la causa». E qui risuonano forti le parole di Coltrane: «Non so esattamente ciò che sto cercando, qualcosa che non è stato ancora suonato. Non so che cosa sia. So che lo sentirò nel momento in cui me ne impossesserò, ma anche allora continuerò a cercare».