// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

Mi sono trovato a leggere una recensione firmata da un amico, Massimo G. Bianchi, stimabile e stimato pianista. Un lavoro di quelli serializzati in batteria dalla ECM, che Bianchi, con un minimale pizzico di enfasi pubblicitaria definisce “una delle più influenti case discografiche del mondo” (il che, sin dall’inizio, conferisce un’aria curiosamente obliqua allo scritto, spingendo a ricordare la massima coniata da pensatori come Piotta e Chiambretti: “comunque vada, sarà un successo”). Poiché a leggere le cifre dei mercati discografici americani, latinoamericani e asiatici ciò non si direbbe, forse “una delle più influenti case discografiche in Europa” sarebbe, pur con non poche perplessità, dicitura più aderente alla realtà, per quanto poi l’omelia di involontario marketing prosegua nel definire trionfalmente l’ECM non più un’etichetta discografica ma “un progetto culturale vero e proprio” a sé stante.

La recensione, altrettanto entusiasta e piena di slanci affettivi, riguarda “Sphere”, flebile respiro nella vita di un pianista di riguardo come Bobo Stenson, artista un tempo encomiabile, oggi prigioniero di un estetismo che si potrebbe definire tipicamente “nordico”, se non fosse che il panorama musicale accademico contemporaneo nei cosiddetti Paesi nordici è francamente assai più interessante, ancorché dall’autoreferenziale fiato corto, rispetto a manifeste prove di contrazione lessicale che s’illudono di essere pertinenti e puntuali perché “less is more”: in realtà hanno semplicemente poco da dire e, come “animula vagula blandula”, scendono in “luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avranno più gli svaghi consueti”. Certo, il gusto personale ha il suo peso nel recepire formulazioni ormai artefatte come la consueta fluidità temporale e il gusto calcificato del rubato, che si ripetono implacabili da circa vent’anni, questa volta applicate, come soluzione multiuso, a due composizioni originali (una delle quali, dedicata a Charles Ives, è un delizioso, integrale fraintendimento dell’estetica ivesiana) e a una serie di composizioni di autori scandinavi assai più interessanti nella loro veste originale (basti ascoltare “Valsette” di Sibelius, ridotta a una vignetta priva di fisionomia). Opinione personale, ça va sans dire.

Personalmente, infatti, sono rimasto sentimentalmente attaccato alla produzione della ECM che, più di vent’anni fa, era segnata dal contributo allora forte di Steve Lake, un professionista da rimpiangere rispetto alla successiva produzione dominata da Eicher, ex-musicista di pallida carriera, culturalmente bolso e reazionariamente eurocentrico, paternalista e conservatore borgomastro di tendenze ario-misticheggianti che ha trovato albergo in una vezzosa aria da studente eternamente fuoricorso (il che, culturalmente, è evidente). Si dice che “repetita iuvant”, dunque, dopo una serie di notevoli incisioni ognuna assai simile alla precedente, la temperie concisamente logorroica (succede quando la rarefazione è affidata, come in un lavaggio del cervello, agli stessi materiali) amata da Stenson ci dovrebbe essere decisamente familiare. E si può anche essere affezionati a questa “cifra”, che accomuna più pianisti amati e incisi da Eicher, come si è affezionati all’atteso ritorno di qualcosa che conosciamo assai bene e la cui assenza rompe la paciosa abitudinarietà.

Come gusto personale, trovo poco di significativo in questo piccolo, angusto armadio in cui le stagioni passano senza lasciare traccia sugli abiti ben custoditi e legati a un prêt-à-porter che riflette assai bene, pur con apprezzabili eccezioni (penso, ad esempio, alle incisioni di Alexander Lonquich e pochi altri), l’estetica eicheriana, un intruglio culturalmente revanscista di turgori lutulenti, fintamente ieratici e figli di una cultura tardo-ottocentesca che forse pensa di demistificare creando una propria mitopoiesi auto-adorante. Le fondamenta di quest’ultima sono d’altronde partorite da un gusto per l’esoterismo kitsch di cui è stata a lungo vittima la musica improvvisata africano-americana, salvatasi solo grazie alla personalità e al pensiero indipendente di artisti poco inclini alla subdola, ambigua, luciferina opera di sottrazione e castrazione ritmica e timbrica operata in studio d’incisione (una dimensione catacombale più che chiesastica, in cui il riverbero misticheggiante ed estetizzante, effettistico e lessicalmente improprio, cercava di “europeizzare” gli elementi africano-americani in un’operazione di appropriazione culturale bianca che non si vedeva, grazie al cielo, da decenni). Peraltro, le incisioni ormai affidate a dei legnosi e anodini ingegneri del suono svizzeri fanno persino rimpiangere quelle realizzate a Oslo.

Fin qui siamo rimasti nel campo dei miei gusti personali che, evidentemente, differiscono da quelli di Massimo Bianchi. Come scrive argutamente Amy Homes, “It’s my policy not to review funerals”. Cerco, perciò, ogni volta che posso, di evitare la plumbea, razzista estetica eicheriana, a lungo frutto di un neo-colonialismo culturale europeo, espressione di un preciso e significativo segmento di storia tedesca sostenuto da una prevaricatrice forza economica andatasi spegnendo. L’ECM è espressione mirabile del conservatorismo impaurito e con la coda fra le gambe che assilla un continente culturalmente, economicamente e politicamente decentrato, giunto sin troppo tardi (viste le nefandezze commesse per secoli e culminate nella imperdonabilità della Shoa) all’ocaso, e che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale rimastica e rumina tutto quel già detto, già visto, già scritto e già ascoltato che costituisce ormai un rassicurante fardello identitario quanto inerte.

Il contrario, evidentemente, di quello che pensa Bianchi, che a partire dalle ingiallite ma “well-rehearsed” rivisitazioni di Stenson scrive di un jazz europeo vivo e vegeto. E per farlo spende un certo malcelato disprezzo verso la cultura non europea che proprio al jazz ha dato vita e idioma, quella africano-americana. Per carità, lo capisco. Un attore di squisito mestiere, Jean-Louis Trintignant, affermava, verso la fine della sua vita: “Le plus grand sujet c’est la mort, je n’aime que les auteurs qui parlent de la mort”, cioè il plausibile motto di gran parte della cultura europea bianca odierna (cui la ECM aderisce perfettamente) e che ha per effetto ovvio il rifiuto di tutto ciò che parla della vita e della vitalità sia spirituale che corporea, della loro affermazione, della loro forza. Le culture dei Mondi Nuovi, laboratori poli-etnici di illimitata inclusività in cui il meticciato si rinnova giorno per giorno, prive della “civiltà” (ehm…) europea e del suo passato, salvo averne subito le conseguenze (Quando i missionari giunsero, gli africani avevano la terra e i missionari la Bibbia. Essi ci dissero di pregare a occhi chiusi. Quando li aprimmo, loro avevano la terra e noi la Bibbia, commentava Jomo Kenyatta), guardano al futuro, posseggono perciò una vitalità che oggi è impensabile ritrovare in Europa se non fra i figli delle società più meticciate. E questo può ben ripugnare a chi reputa che vi sia nell’eurocentrismo una superiorità nobilitante, se si parla di “Dichtung interiore rispetto a condivisione di gesti e pronunce” come se ciò, evidentemente, fosse quanto distingue gli artisti europei dai quei poveretti che non lo sono: ecco, questo è un paternalismo francamente urticante, ai limiti del razzismo, oltre a costituire un’affermazione a dir poco discutibile storicamente.

Altrettanto paternalista e vagamente (?) irridente suona il paragone fra la presunta arte a tre voci di Stenson e compagni e l’apprezzamento della “prosa classica” in coloro che nel jazz cercherebbero, a dire di Bianchi, “il perpetuarsi delle radici R&B, la fedeltà a un’idea imperante di musica afro-americana o le più celebri melodie degli standard”. Capisco che Bianchi si rivolge a coloro che sono affezionati al mainstream e alla sua vecchiezza, cui però egli contrappone non qualcosa di reattivo ma un esempio claudicante e artritico di “vetustà”: “Ait latro ad latronem”. Disquisire ironicamente e un po’ sprezzantemente di standard rispetto a un’incisione che è tutto un rifare il verso a composizioni accademiche altrui, è un peculiare scivolone o un’ulteriore manifestazione di senso di superiorità culturale. Insomma, agli africano-americani non dobbiamo neanche concedere l’onore delle armi: l’idea imperante (e vitale e futuribile di musica afro-americana) deve cedere, con tutto il rispetto per Stenson e i suoi pari, il passo all’arte di un quasi ottuagenario bianco che rimastica musiche accademiche del passato. “These fragments I have shored against my ruins”, scriveva Eliot poco più di cent’anni fa. C’è chi indubbiamente non vuole muoversi da lì.

M Il mostro di Dusseldorf