// di Francesco Cataldo Verrina //
Immaginiamo che jazz sia una lunga strada su cui viaggiano ed hanno viaggiato musicisti di ogni tipo, come viandanti alla ricerca di un esperanto sonoro, alcuni si sono sfiorati, altri sono passati in momenti differenti e non si sono mai conosciuti, altri si sono incontrati e sono scaturite delle alchimie che hanno cambiato gli eventi e la storia. Taluni incontri sembrano favoriti dal destino, poiché si creano delle vere e proprie confluenze astrali, come se i predestinati fossero sospinti da una forza sovrannaturale, che trasforma il loro apparente e casuale rendez-vuos e successivo sodalizio in qualcosa di unico ed irripetibile.
L’incontro tra Franco D’Andrea, Franco Tonani e Bruno Tommaso non fu del tutto fortuito, ma sicuramente favorito degli eventi e da un rimodellamento del line-up del Modern Art Trio, la cui prima formazione vedeva la presenza del contrabbasso Marcello Melis che lascerà il posto l’anno successivo a Giovanni Tommaso, il quale a sua volta nel 1969 sarà sostituito da Bruno Tommaso. A questo punto il cerchio si chiuse con l’aiuto di quelle perfette coincidenze che hanno fatto grande la storia del jazz: tre perfetti elementi sonori s’incastrano, tre portatori di istante simili e confluenti finiscono per coincidere, ossia incidono insieme per un unica volta, ma determinando qualcosa che rimarrà nella memoria di quanti hanno ancora del jazz una visone dinamica, sincretica e non convenzionale.
Il primo e unico disco eponimo del Modern Art Trio riporta sulla copertina la sigla Progressive Jazz, un preciso indicatore di marcia e di direzione, un evidente richiamo alla spinta innovativa di un triunvirato che sviluppa un costrutto sonoro imperniato sull’equilibrata commistione di musica sperimentale, fusion espansa, accenni di dodecafonia e free jazz. Registrato per l’etichetta Vedette Records il 17 & 19 aprile del 1970 al Sound Workshop di Piero Umiliani con la supervisione tecnica di Paolo Ketoff, «Modern Art Trio» vede in perfetta simbiosi ed osmosi creativa Franco D’Andrea pianoforte, piano elettrico e sax soprano, Franco Tonani batteria e tromba e Bruno Tommaso contrabbasso. L’ascolto dell’album, diventato un vero cult per gli appassionati del jazz d’avanguardia, abbatte le barriere architettoniche della musica seriale e di flusso, soprattutto oltrepassa la logora formula del piano trio standard (pianoforte, basso e batteria): i tre musicisti fanno ricorso ad altri strumenti (flauto, sassofono, tromba e piano elettrico.) allargando la scena sonora ed intentando una serie di circonvoluzioni creative che vanno dall’essenzialismo minimalista alla forma più espansa della suite.
L’ascoltatore si trova di fronte ad un piccolo gioiello di jazz progressivo, multistrato e cinetico, proiettato, forse inconsapevolmente, verso un futuro che avrebbe fatto della confluenza di stili e linguaggi la principale regola d’ingaggio degli anni a venire: Un concept visionario ed anticipatore, ma a differenza di taluni eclatanti fenomeni nati sulla spinta propulsiva del primo Miles Elettrico, il Modern Art Trio operava nella «selva oscura» della provincia italiana dove ogni mutamento veniva recepito in ritardo e dove i mezzi per la diffusione di taluni dischi, specie quelli con il baricentro spostato in avanti, erano abbastanza modesti. Il progetto si sostanzia attraverso sei componimenti: tre a firma Franco D’Andrea, due scritti a quattro mani da Tonani e D’andrea ed uno standard di Gershwin che ben si integra nel costrutto concettuale coerente dell’album: l’amalgama sonoro è mercuriale, equilibrato e conseguenziale, tanto da poter parlare di vero album concept. Siamo nel 1970, e jazz e rock iniziano scambiarsi promesse per l’eternità tentando una reciproca inculturazione per vicinanza e per affinità elettiva, quando non si tratta di vera e propria commistione sintattica oltre che semantica. I due generi sono oramai sul medesimo asse di quella musica meticcia che viene intercettata da una generazione legata alla stagione del cosiddetto antagonismo, una sorta di underground ante-litteram che trovava nelle frange più evolute ed avanzate del jazz i suoi migliori paladini, nonché cantori di una chanson de geste sonora che avrebbe intercettato lo zeitgeist, dominando e marchiando a fuoco gli anni Settanta.
L’album si apre con «URW» che unisce regolarità tematica e movimenti angolari, fissando i punti di ancoraggio di quello che sarà il tipico pianismo di Franco D’Andrea basato su intervalli melodici e fughe trasversali, ma tutto l’album appare come una sorta di costruzione e di intelaiatura modulare su cui impiantare sviluppi strumentali di nuova concezione, anticipando perfino quelli che saranno taluni sviluppi stilistici implementati da Keith Jarrett e Chick Corea. «Frammenti» è una ballata atipica e distaccata che si srotola sul tapis roulant di una melodia dissonante e abrasiva che ricorda anti-sentimentalismo monkiano, trasfigurato in una dimensione più moderna. In « Un Posto all’Ombra» entra in scena il polistrumentismo a volo libero di D’Andrea e Tonani ricco di timbri bruniti ed estremi, mentre con «It Ain’t Necessarily So» assistiamo ad un breve e momentaneo ricongiungimento con la tradizione, ma senza mai uscire dalla linea di demarcazione tracciata all’inizio; soprattutto lo standard di Gershwin viene trattato con una modalità non contemplata dalla precedente agenda setting del jazz. Con «Echi» che porta in calce la firma di Franco D’andrea s’instaura una formula desueta di piano trio, dove basso e batteria non si limitano al semplice comping ma si muovono su un livello paritetico rispetto al pianoforte, omettendo ogni vincolo di gerarchizzazione tradizione, mentre gli strumenti, a rotazione, diventano protagonisti e suggeritori al contempo. «Beatwitz» è quasi un’estasi spirituale, dove il passaggio dall’immanente al trascendente si materializza sulla riverberante spinta di una religiosità pagana alla Pharoah Sanders. «Modern Art Trio» di D’andrea / Tonai / Tommaso è un raccordo tra il passato recente del jazz e la rappresentazione plastica di un presente, dove ogni mutamento di stile ed i rotta, in quell’abbrivio di anni Settanta, diventava futuro anteriore in breve tempo ed a presa rapida.
