// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
Scala sì, Scala no. Paolo Conte sì, Paolo Conte no. Piero Maranghi, editore e patron di ClassicaHD, scaglia la prima pietra, reputando che Conte poco o nulla abbia a che vedere con il teatro scaligero. Polemiche, dibattiti, dubbi e proclami. Intervengono Pierluigi Panza e Milena Gabanelli che cita il jazz a proposito di Conte. Ohinoi, che succede? La polemica credo sia nata in modo strumentale da qualche dissidio pregresso fra Maranghi e l’attuale Sovrintendenza. Ha poi preso la piega di un qualcosa di più serio ma non necessariamente puntuale. Trovo difficile porre degli argini prestabiliti a una programmazione artistica, che risponde a numerose sollecitazioni, fra le quali anche il mutare di tempi, circostanze, sensibilità e opportunità, sia dell’eventuale istituzione che del pubblico.
La concezione di determinate sale o di taluni luoghi come «templi» non porta che a ingessarli in ruoli museali in ogni caso artificiali e spesso artificiosi. Quale musica è degna o adatta al «tempio»? Secondo quali parametri? Non si tratta di scegliere fra «bello» o «brutto», casomai fra qualitativamente elevato o meno: i direttori artistici esistono per questo, altrimenti basterebbe affidare il ruolo di portiere a qualche agente con un portfolio nutrito (il che non è detto che già, purtroppo, non succeda). Un direttore artistico deve potere e sapere scegliere, in base all’opportunità, evidentemente, prendendosi la responsabilità di farlo. Tant’è che da tempo la programmazione scaligera sembra piuttosto mummificata, come se non potesse prendere atto che nel Novecento e in tempi pure più recenti la produzione di lavori musicali pensati per il teatro abbonda, naturalmente a livello accademico. Basterebbe dare un’occhiata alle programmazioni di molti altri «templi», dal Metropolitan all’Opéra al Covent Garden a Zurigo: istituzioni che proprio non hanno alcunché da invidiare alla Scala, anzi.
Il Novecento appare di rado alla Scala in qualsiasi sua forma e quando appare sembra comunque volersi vestire di un che d’antan, come se ammettere che la storia della musica non si è fermata al 1897, fosse sconveniente. Il pubblico milanese, salvo rarissime occasioni, non ha frequenti contatti con la musica accademica degli ultimi cinquant’anni a dire poco. Vogliamo dire che non è degna? Sarebbe sconveniente ospitare «Nixon in China» di John Adams o «Satyagraha» di Philip Glass o «Alice in Wonderland» di Unsuk Chin o «The Tempest» di Thomas Adés o, ancora, «Written On Skin» di George Benjamjn o «L’Amour de Loin» di Kaija Saariaho, tanto per dire? O qualcuno ha disposto che il tempio milanese debba custodire solo una parte specifica dei sacri testi? In una città dove la Piccola Scala, malauguratamente, non esiste più, e dove non esiste altro palcoscenico per il teatro musicale, visto che il Teatro degli Arcimboldi programma con un certo cattivo gusto un’insalata russa fatta di tutto un po’ fra buono, mediocre e pessimo. Non ci si deve poi stupire se nel corso dell’intervallo di «Fin de partie» di Kurtág sembrasse di assistere alla fuga di mandrie impazzite: il pubblico non nasce e cresce da solo, si accompagna lungo un percorso, è uno degli scopi di certe istituzioni. Chi avrebbe mai detto, poco meno di un secolo fa che «Die Dreigroschenoper» sarebbe diventato un lavoro iconico, e così talune pagine di Gershwin o altri? Sarebbe così sconveniente che la Scala ospitasse, che so, «Happy End» o, addirittura, «Johnny Johnson» di Weill, o «Kiss me, Kate» di Cole Porter? O «Show Boat» di Jerome Kern? O taluni lavori di Stephen Sondheim come «Sunday at the Park with George» o «Sweeney Todd»? La Scala fu rifiutata a Duke Ellington, uno dei massimi compositori del Novecento, ad esempio. E non credo che Keith Jarrett o Bobby McFerrin (uno fra i grandi teorici di una vocalità eretica e meticciata dei nostri tempi) possano avere costituito uno scandalo.
Se si valuta tutto ciò che la Scala non ha fatto, non fa o non può fare (appunto, è l’unico palcoscenico operistico della città e non dispone più della Piccola Scala: non si può chiedere il miracolo), la polemica su Paolo Conte è per certi versi pretestuosa (appunto, a naso si direbbe che sia nata per motivi meno nobili), per altri versi inconsistente. Non ha senso aprire le porte a Paolo Conte, visto che non sono state e non vengono aperte a personalità di gran lunga piu significative e meritevoli, con tutto il rispetto per Conte, che in questi giorni è stato presentato e osannato per quello che, francamente, non è. Né il fatto che sia una «gloria italiana» aggiunge molto, se non un tocco di campanilismo nazionalista vagamente esagitato. Aprire le porte a Paolo Conte, in effetti, non ha senso: pochi giorni fa è morto un vero genio della musica popolare, un vero intellettuale dalla produzione musicale sofisticata e complessa (partiture alla mano), Burt Bacharach, e non credo che qualcuno, giustamente, si sia mai posto il problema di ospitarlo alla Scala. E lo stesso si potrebbe dire di decine di artisti degli ultimi cinquant’anni.
Il concerto di Paolo Conte pare così una becera «captatio benevolentiae» a scopo incasso dettata da qualcuno con buona capacità, ché mi permetto di dubitare che Dominique Meyer e il suo predecessore Alexander Pereira (oggi alle prese con polemiche fiorentine di altra natura) si siamo mai dilettati molto di cantautorato italiano. Perché Conte sì e Randy Newman (che è autore di gran lunga più sofisticato) o, ancora di più, Brian Wilson (che ha scritto alcune delle poi significative canzoni della seconda metà del Novecento), no? Perché non ospitare Paul McCartney, dunque? Stiamo parlando, che ci piacciano o meno, di giganti assai più significativi di Conte. Ecco, il problema è che, una volta aperto a Conte, cosa segue? La Scala continuerà a rifiutare buona parte del Novecento e dei nostri giorni per ospitare ogni tanto un concerto di nazional-popolare chic, tanto per rimpinguare le casse o per fare un po’ di retorica? O è il segnale, peraltro sbagliato, di un cambio di marcia? Affrettiamoci, Tom Jones ha già i suoi annetti, o speriamo in Tom Waits? E perché, poi?
