// di Francesco Cataldo Verrina //

PUBBLICA ACCUSA: James Lincoln Collier

DIFENSORI D’UFFICIO: Irma Sandres, Bounty MIller e Gina Ambrosi

Alla sua morte, nel 1974, Duke Ellington ha lasciato un’eredità musicale quantitativamente e qualitativamente consistente, attraverso quello che è forse il corpus operae più significativo della storia del jazz. Se consideriamo il jazz una parte importante della musica del nostro tempo, un’insieme di composizioni jazz, più di 2000 tra le più significative del XX secolo, sanciscono la grandezza di questo artista a prescindere. Ciononostante, anche a distanza di tempo, Edward Kennedy «Duke» Ellington rimane una figura controversa. Secondo taluni critici, la sua posizione nella storia del jazz come compositore di successo, band leader e direttore d’orchestra sembra sicura ed acclarata, ma l’essere equiparato ad un compositore come Stravinsky o altre personalità eminenti della musica del Novecento sarebbe eccessivo. A pensarci bene, Duke Ellington era nero, un’osservazione banale, ma il dettaglio non è trascurabile, mentre la critica, in massima parte bianca e affetta da eurocentrismo, guarda e guardava altrove, ora come allora.

Certo, James Lincoln Collier ha allestito un’istruttoria nei confronti di Ellingnton che fa acqua da tutte le parti, soprattutto l’impianto accusatoria è alquanto debole. Collier scrive: «La maggior parte dei risultati artistici di alto livello dipende dal possesso di un dono e di un’abilità superiore a quella concessa alla maggior parte delle persone: la capacità di descrivere rapidamente e in termini nuovi eventi e sentimenti attraverso un flusso di associazioni tale per cui un’idea ne trascina un’altra ed un talento capace di vedere relazioni tra entità molto disparate. Duke Ellington non aveva questo dono. Gli mancava l’inventiva melodica di un Bix Beiderbecke, di un Johnny Hodges; molte delle sue melodie più famose gli sono state suggerite dai membri dell’orchestra. Il suo senso della forma più ampia e dell’architettura musicale erano notoriamente deboli. La critica più pertinente riguarda le opere più lunghe, che erano «sconclusionate» e «incoerenti» e dove la mancanza di forma appariva più evidente. Sebbene possedesse il senso del tempo e nonostante fosse considerato da chi suonava con lui un eccellente pianista di gruppo, non aveva l’impeccabile senso ritmico di un Louis Armstrong, di un Benny Goodman, di un Lester Young, i quali erano in grado di trasformare in swing anche la più semplice e diretta delle melodie».

Come dicevamo tutto il castello accusatorio è basato su un giudizio personale e rispettabile, ma sappiamo bene da informazioni acquisite che il Professor James Lincoln Collier fosse un amante soprattutto del vecchio hot-jazz e che la figura di Ellingnton, ai suo occhi, soprattutto alle sue orecchie, debba essere sembrata troppo moderna e progressiva rispetto a quelli che erano i suoi trastulli personali. La grandezza del Duca è cementata nella storia del jazz e della musica del Novecento, ma Collier nei suoi scritti fa appello alle storiche divisioni di classe tra i neri americani e ai capricci dei musicisti di talento dagli anni ruggenti all’interno del business musicale, tanto che Ellington appare come una figura misteriosa ed ambigua, lontano dalla sua «gente», il quale non rivelò quasi mai nulla della sua vita interiore. Inoltre, Collier afferma che l’autobiografia di Ellington, «Music Is My Mistress», scritta in gran parte sotto dettatura da Stanley Dance, nasconderebbe di proposito «l’uomo Ellington» piuttosto che rivelarlo e che i tratti di narrazione più penetranti sarebbero legati ai ricordi degli altri. Nel denigrare l’autobiografia ellingtoniana, potrebbe esserci un conflitto d’interessi, in quanto Collier è autore di una biografia su Duke Ellington.

Come già accennato, Collier non nasconde il suo interesse soprattutto per il jazz degli anni Venti e Trenta e la sua avversione per le opere successive del catalogo di Ellington, soprattutto è abbastanza esplicito riguardo certe preferenze o antipatie. Tuttavia, le sue giustificazioni rasentano una linea di confine tra il bizzarro ed il surreale, in particolare le critiche alle opere teatrali o alle suite concertistiche, le quali sembrerebbero derivare direttamente, non da un’analisi di tipo musicologico, ma dalla sua personale idea di come un compositore o un direttore d’orchestra dovrebbe agire. Lo studioso che elargisce consigli o indicazioni ex-post ad un artista, dicendo cosa e come avrebbe dovuto o potuto fare, rischia di scadere nel ridicolo. Con tutto quello che Ellington ha prodotto nell’arco della sua carriera ci chiediamo come sia possibile un giudizio del genere? Come avrebbe potuto un uomo senza alcun dono facilmente distinguibile concepire un corpus operae così vasto ed importante? Il punto di partenza, per una facile comprensione è sapere che Ellington componeva e arrangiava molto da solo; decideva anche cosa dovesse o non dovesse far parte di un pezzo, perché esso non perdesse di efficacia ed immediatezza. Ordinava le sezioni ed attribuiva la parti solistiche. Collier sostiene che Ellington modificasse le idee di base che gli venivano sottoposte dai suoi collaboratori, appropriandosene. Un’accusa simile è stata spesso rivolta allo stesso Miles Davis, il quale, a detta di alcuni detrattori, avrebbe beneficiato non poco dell’apporto creativo di taluni musicisti. Quando la critica non si concentra sul risultato finale, ma cerca il dettaglio, la minuzia o il cavillo dimenticando la visione d’insieme, diventa debole come il mediocre, privo di ossatura, che non accetta l’altrui grandezza. Per contro, il Duca conosceva i collaboratori e quasi sempre forniva loro un’ambientazione ed una partitura che ne esaltasse le virtù esecutive. Credo che si possa considerare Ellington alla medesima stregua del regista di una squadra di calcio, un demiurgo, un organizzatore sopraffino anche nei lavori sviluppati in collaborazione, o come un’artista che assemblava le parti in un variopinto collage o in un mosaico bizantino fatto di tanti tasselli colorati.

Collier insiste nel sostenere quanto segue: «È vero che Ellington ha composto alcuni dei suoi più grandi successi, «Take the A Train», «Caravan», «Creole Love Call», «Lush Life», «Sophisticated Lady», per citarne alcuni. Inoltre, non mi sorprenderebbe affatto sapere che molte delle idee melodiche siano farina del sacco dai membri della band». Collier cerca di rifare il verso a Bernstein che in un saggio su Beethoven «Bull Session In The Rockies» elencando, una per una, le apparenti mancanze del genio tedesco in fatto di doti musicali, per poi individuarne la grandezza di compositore in una sorta di «inevitabilità» storica. Un concetto alquanto aleatorio che apparentemente potrebbe non significare nulla, ma che in realtà fa riferimento all’immanenza dell’opera d’arte, il fattore terreno, umano, ambientale. Alcune opere possono nascere solo in un determinato contesto spazio-temporale. Se Beethoven, ad esempio, fosse nato un secolo dopo ad Harlem o a New Orleans forse avrebbe suonato jazz. Così come a parti invertite Ellington avrebbe composto sinfonie. Ogni opera dell’umano ingegno è legata al concetto di «inevitabilità» storica, soprattutto al concetto di «inconsapevolezza» storica: chi scrive, compone, dipinge o crea è sempre lì, hic et nunc, e non sa se passerà alla storia.

Si consideri inoltre che, al netto delle arti figurative o delle composizioni sinfoniche dell’Ottocento, la musica del XX Secolo è legata molto ad un’idea di «usabilità momentanea», quindi di utilizzo attraverso i dischi o altri supporti, in casa, in auto o nelle sale da ballo, un tempo di uso anche nei juke-box, oggi piattaforme streaming, di trasmissibilità radiofonica ed altri fattori che condizionano e condizionarono molte scelte compositive e produttive. Dal momento in cui si ebbe la possibilità di registrare e di fissare i suoni e le voci su nastro o altro supporto fono-meccanico, l’idea della composizione e dell’esecuzione musicale e canora non fu più la stessa. Cio che si contesta a James Lincoln Collier è il fatto che a differenza di Bernstein non riesca a trovare il bandolo della matassa ed a fornire una spiegazione plausibile rispetto all’innegabile qualità di gran parte della produzione di Ellington, ma anche alla sua coerenza di tono e di stile. Mancano le spiegazioni da parte di Collier, quindi il processo indiziario a carico del Duca Edward Ellington diventa molto più agevole per la difesa. È innegabile che Ellington abbia composto quasi tutti i suoi più noti successi. Con il dovuto rispetto per Johnny Hodges quale solista jazz, contraltista fortemente lirico e coinvolgente e certamente uno dei sopraffini improvvisatori dell’orchestra ellingtoniana, forse della storia del jazz, tuttavia non conosciamo molte composizioni di Hodges degne di nota, oltre ai suoi magici assoli. Sicuramente ebbe l’opportunità di creare qualcosa di suo, dato che per un certo periodo si allontanò dalla dimora del Duca per formarne uno proprio gruppo. Ciononostante, non si conosce alcun originale di Hodges che sia diventato uno standard. Lo stesso vale per quasi tutti gli altri membri della confraternita ellingtoniana. Juan Tizol, trombonista valvolare e musicista colto, ha alcune composizioni al suo attivo, ma il suo pezzo più famoso, «Caravan», ha avuto il contributo di almeno altre due persone, tra cui Ellington, ma sarebbe sempre poca cosa anche se l’avesse scritta da solo, a fronte delle migliaia di componimenti firmati dal Duca, di cui tanti sono diventati degli standard.

Le insinuazioni di Collier sono alquanto deboli e pressoché basate su valutazioni e gusti personali, poco obiettivi e convincenti sul piano tecnico-strumentale e musicologico. Ellington, come tutti gli altri band-leader dell’epoca, dipendeva a volte dagli arrangiatori o dai vincoli imposti della case discografiche e dagli editori di canzoni, altre dal personale della band come Billy Strayhorn, Mercer Ellington, Juan Tizol. Tuttavia suddetti collaboratori si adattarono allo lo stile del Capo. Ciò implica che Ellington possedesse una forza compositiva a sé stante. Inoltre, la maggior parte del lavoro di Ellington abbonda di opportunità per i solisti. In effetti, lo stesso Collier sostiene che tali opportunità siano state una delle ragioni principali per cui eccellenti musicisti sono rimasti alla corte del Duca per tutto il tempo ed che alcuni siano rientrati all’ovile come mansuete pecore smarrite dopo un periodo di distacco. Collier coglie la palla al balzo facendo leva su tale aspetto, a nostro avviso più umano o contrattuale che non musicale. Lui dice: «Pertanto, quando parliamo di un brano di Ellington, dobbiamo tenere conto dei contributi di questi uomini. Data la natura collaborativa di quasi tutto il jazz, come possiamo parlare di Ellington come compositore?». Pensiamo che la catasta di accuse di Collier sia solo un cumulo di macerie dovute ad una visione distorta della composizione jazzistica o di una certa operatività del compositore. In genere si tende a pensare al genio solitario chiuso in un’oscura soffitta o in un appartamento umido e poco riscaldato mentre scarabocchia febbrilmente la sua ultima sinfonia su un pentagramma sgualcito. Il «genio solitario» è una zona comfort e crea meno difficoltà a chi deve valutare, giudicare o recensire, ma tutto ciò significa estraniarsi completamente dalle dinamiche del jazz che sono formalmente collettive. Fatto sta che bisognerebbe scendere a valle e considerare Duke Ellington non come Mozart o Beethoven ma come un asse portante che, nell’ambito jazzistico per importanza storica, corrisponda ad entrambi o ad altri geni di tale caratura. Est modus in rebus, dicevano i Latini.

Sarebbe più giusto paragonare Duke Ellington ad un primario che guida un equipe medica, di cui accoglie istanze e suggerimenti, o ad un regista cinematografico. il quale, ad esempio, ha lavorato con molti scrittori, attori, scenografi, soggettisti, sceneggiatori e direttori della fotografia, eppure sembra possibile individuare uno preciso stile in certe pellicole. Egli non è stato l’unico responsabile dei suoi film, ma li ha decisamente plasmati, secondo le istanze di tutti coloro che lavoravano con lui. Ha senso trattare quel dato regista cinematografico come personalità artistica, individuando i filamenti comuni e condivisi che attraversano la sua opera filmica. Sarebbe altrettanto sensato trattare Ellington seguendo tale procedura. Purtroppo, Collier sembra troppo preoccupato a scovare quelle che considera le debolezze del suo bersaglio critico, anziché coglierne i punti di forza. È ovvio che lo scrittore si arrampichi sugli specchi cosparsi di grasso quando sostiene che Ellington abbia dato il meglio di sé nelle brevi forme compositive più che nelle innumerevoli lunghe suite. Come dicevano, in relazione alla musica classica potrebbe essere vero, ma è completamente errato se si cala il tutto in un contesto jazzistico, dove le regole d’ingaggio sono meno vincolanti e restrittive rispetto della musica sinfonica.

Uno studio serio implica dettagli, e Collier semplicemente non ne fornisce abbastanza sorvolando su almeno quattro opere principali: l’arrangiamento della Suite dello «Schiaccianoci» di Tchaikovsky, «Suite Thursday», «Anatomy Of A Murder» e «Such Sweet Thunder». La maggior parte di questi lavori sono solo accennati e lasciati cadere nel nulla. Collier critica «Such Sweet Thunder» soprattutto perché non vede i collegamenti con Shakespeare bypassando tutto il discorso relativo alle connessioni musicali e riproponendo inoltre la solita tiritera secondo cui i pezzi estesi di Ellington non stanno insieme, ma senza argomentare e sostenendo che i critici di musica classica non abbiano mai mostrato interesse per talune composizioni del Duca. Va detto che la maggior parte di tali critici non ha la minima idea di che cosa sia jazz, sovente lo ignora e lo rifugge, se n’è sempre tenuto alla larga, specie in epoche meno sospette. Oggi molti esperti di musica, o sedicenti tali, tendono alla promiscuità. I puristi della musica eurocolta, non capendo l’idioma di base di Ellington, difficilmente potrebbero comprenderne l’estensione, oggi come allora. Abbiamo già sottolineato che Duke non sviluppava le proprie composizioni attraverso un metodo accademico (che poi non è l’unico modo per costruire e tenere insieme una partitura musicale), ma era in gran parte autodidatta ed apprese le dinamiche e le tecniche compositive principalmente scrivendo, piuttosto che seguendo un corso di studi regolari. Sarebbe sorprendente se qualcuna delle sue suite contenesse un metodo trascrittivo simile a quello di Beethoven.

In ogni caso, il Professor Collier non risponde alla domanda più difficile: se le composizioni ellingtoniane siano coerenti o meno. Collier abdica alla sua responsabilità divenendo leggermente ambiguo: «Va detto che la «ricomposizione» dello «Schiaccianoci», perché a questo equivale il lavoro di Ellington, sta a Tchaikovsky come Stravinsky sta a Pergolesi ed è coerente almeno quanto l’originale, mentre l’orchestrazione, come ho detto altrove, è quella di un maestro». In fondo il nostro sedicente studioso per promuovere il proprio scritto usa una sorta di provocazione continua nel tentativo di screditare Ellington pur riconoscendone i meriti. Il metodo d’indagine, a nostro modesto parere, è fallimentare in quanto si cerca di giudicare un jazzista, perché è di un jazzista che stiamo parlando, tentando paragoni cono musicisti di estrazione eurodotta che hanno operato in un contesto diametralmente opposto e per lo più inconciliabile con le dinamiche naturali del vernacolo jazzistico. Il jazz è groove, ritmo, qualcosa che batte e non che scivola; il jazz è libertà costruttiva, improvvisazione, interplay, composizione in tempo reale, forme irregolari, tempi non contingentati, perfino anarchia e totale svincolo dalle regole armoniche, così almeno nella sua evoluzione. Il jazz presenta limiti, vantaggi, prerogative ed attitudini ben diverse da quelle dalla musica operistica, sinfonica o cameristica. Esso nasce come sintesi delle diversità del Sud del mondo e voce rabbiosa degli ultimi della scala sociale e non come costrutto concettuale coerente legato a schemi e sistemi accordali ben precisi, tipici della musica aristocratica Nord-Occidentale.

A Duke Ellingnton vanno molti meriti: un longevità creativa che ha prodotto centinaia di standard, la sua capacità organizzativa come band-leader, seconda quella di nessun altro; persino il suo pianismo, a volte sottovalutato, conteneva germi di effervescente modernità, spunti estremamente brillanti, assoli prolungati e capacità di condurre con semplicità a strutture piuttosto complesse. Duke Ellington è stato l’uomo che visse due volte: dopo un periodo di intolleranza al glutine del bop, accettò di buon grado di misurarsi con alcuni dei massimi rappresentanti del jazz moderno. Fra i tanti capolavori va segnalato il disco realizzato insieme a John Coltrane per la Impulse! Records e «Money Jungle» l’incontro al vertice con Mingus e Max Roach che nell’ambito della musica classica corrisponderebbe a Mozart, Bach e Beethoven messi insieme.

Duke Ellington