// di Francesco Cataldo Verrina //

Prima di trattare nel dettaglio «My People», sono necessarie alcune considerazioni su Duke Ellington che, nell’immaginario collettivo di massa, insieme a Louis Armstrong, rappresenta forse la massima espressione del jazz di tutti i tempi. Ellington esprimeva una personalità vincente, probabilmente per autoconvincimento, non facile da contrastare e contraddire, basti pensare al suo difficile morganatico con Johnny Hodges, con cui era un lascia e piglia, simile a quello di due amanti. Egli stesso si proclamava come una sorta di predestinato. Come lo stesso Ellington racconta nella sua autobiografia «Music Is My Mistress», la madre gli aveva trasmesso il senso di un destino benevolo, che lo attendeva al varco e che gli avrebbe riservato enormi soddisfazioni, ripetendogli spesso: «Edward, tu sei benedetto. Non hai nulla di cui preoccuparti. Edward, sei benedetto!». Il biografo Terry Teachout considera il Duca una leggenda enigmatica. In «Duke: A Life of Duke Ellington», definisce il musicista «un enigma senza risposta, un uomo irriconoscibile che si nascondeva dietro un alto muro di discorsi ornati e complimenti fioriti che diventarono sempre più fitti man mano che invecchiava». Si potrebbe parlare di retorica, ma sappiamo bene che Ellington è stato un «conservatore», come poteva esserlo un africano-americano di successo, appartenente alla piccola borghesia e che non aveva mai conosciuto la fame, l’umiliazione e la sofferenza degli strati più emarginati della popolazione nera che viveva nei ghetti e nelle baracche con la copertura di latta, le quali, come raccontava Isaac Hayes nato povero in una di queste fatiscenti costruzioni, «d’estate raggiungevano la temperatura di sessanta gradi».

Al netto della posizione sociale, molti decenni prima che il termine brand-image diventasse di uso comune per la promozione e la vendita di artisti, Duke Ellington era già un perfetto package dial, una sintesi concreta di immagine, talento artistico e rilevanza sociale. Come esponente di spicco del jazz nero in un’epoca razzista, dopo essere salito alla ribalta negli anni Venti, l’aristocratico Duke aveva assunto un duplice ruolo: elevare il jazz al livello della musica eurocolta ed ottenere il rispetto della sua razza, riuscendo a vincere su entrambi i fronti. Ellington suonava il pianoforte, ma il suo vero strumento era l’orchestra. La sua musica era un arazzo di trame bluesy, swing e voci strumentali soliste che seducevano, piangevano, anelavano o si lamentavano. Ellington guidava l’ensemble con una maestosità regale che lo faceva sembrare davvero un blasonato aristocratico, tanto da finire sulla copertina del Time. Una carriera sempre in crescendo, dal Cotton Club di Harlem a Broadway e Hollywood, fino alla conquista della Carnegie Hall per tutti gli anni ’40. Composizioni come «It Don’t Mean a Thing (if It Ain’t Got That Swing)» o l’intera suite «Black, Brown And Beige», che esaltavano l’esperienza degli africani-americani, gli valsero paragoni con Prokofiev e Stravinsky. Il tutto con un unico obiettivo: intrattenere «senza compromettere la dignità del popolo nero».

«Proprio in My Mother, My Father» composta in occasione di «My People» Ellington aveva sottolineato il fatto di essere «nato bene» e con qualche vantaggio: «Mia madre, la più grande e la più bella, mio padre, solo bello, ma più spiritoso (…) Sono stato cresciuto nel palmo della mano, dalle migliori persone di questa terra». Nato nel 1899, Edward Kennedy Ellington ebbe la fortuna di crescere e studiare in seno a quella piccola borghesia di colore che già dalla fine dell’Ottocento aveva cominciato ad accettare supinamente le regole dei «bianchi», traendone vantaggi economici. Suo padre James faceva il maggiordomo e il ristoratore (lavorò perfino durante alcune feste alla Casa Bianca ai tempi di Warren G. Harding), lettore onnivoro e appassionato di musica lirica, «si comportava sempre», secondo Ellington, «come se avesse soldi, sia che li avesse o meno, allevò la sua famiglia come se fosse stato un milionario».
La madre Daisy aveva frequentato le scuole superiori, era molto religiosa e disapprovava il blues, amava suonare il pianoforte ed insistette perché il giovane Edward prendesse lezioni di piano dall’indimenticata Marietta Clinkscales. Daisy, per tutta la vita, fu oggetto di culto e devozione da parte del il figlio, tanto che il musicista, dopo la morte della madre avvenuta nel 1935, attraversò un brutto periodo di depressione. Per lei scrisse una delle composizioni più riuscite: «Reminiscing In Tempo».

Nel complesso la vita del Duca fu un avvincente numero di funambolismo: vestito in frac, dal pianoforte sorrideva a 360° rimanendo sempre calmo, accogliente e accomodante. Ellington non poteva lasciare che il pubblico vedesse i suoi difetti, e ne aveva molti: dall’essere un incessante donnaiolo alla propensione a non pagare o decurtare il compenso ai suoi collaboratori. Sapeva che un uomo di colore nella sua posizione doveva sembrare inattaccabile, essere impeccabile: dal paradiso terrestre della sua infanzia felice all’empireo dei trionfi concertistici e discografici. Qualsiasi cosa che non fosse stato il massimo, un elemento negativo o di disturbo avrebbe potuto provocare nei bempensanti (e benestanti) una reazione del tipo: «Ecco che quei neri fanno di nuovo casino». In verità, ad Ellington piacevano poco proprio quei neri che per strada alimentavano tumulti, organizzavano sit-in e marce di protesta, che contestavano la disparità di diritti rispetto ai bianchi; erano proprio queste frange della popolazione di colore ed i suoi leader sobillatori che al Duca non andavano a genio. «My People» nasce proprio da questa contraddizione ellingtoniana, ossia da una parte l’orgoglio di essere nero e vincente in una società dominata dai bianchi, dall’altra il rifiuto dell’idea che altri neri meno fortunati potessero aspirare ad una parità di diritti, di opportunità per poter partecipare al lauto banchetto del sogno americano. In effetti, Duke Ellington si tenne lontano dal movimento per i diritti civili. Da patriota autoproclamato, egli era estremamente a disagio nei confronti della disobbedienza civile e delle proteste di strada degli africani-americani che, negli anni Sessanta, andavano diffondendosi in ogni angolo d’America, al punto che non partecipò neppure alla Grande Marcia su Washington, organizzata da Martin Luther King del 1963.

Si consideri che l’idea principale che il Duca aveva del jazz e della musica in genere, è che fosse puro intrattenimento e spettacolo e che nulla avrebbe dovuto mai a che spartire con le questioni politiche o razziali. Per contro, Ellington dichiarò che avrebbe affrontato la questione a modo suo, quindi si recò a Chicago per dare gli ultimi ritocchi ad uno spettacolo teatrale, «My People», basato sulla sua precedente suite «Black, Brown And Beige» e finalizzato alla celebrazione dei cento anni dell’emancipazione dei neri dalla schiavitù. Le aspettative non erano alte. Ellington veniva visto come un uomo dell’establishment. Una delle tante manifestazioni del suo fervente patriottismo era stata la partecipazione ad una serie di trasmissioni radiofoniche realizzate negli anni Quaranta a sostegno del «Tesoro degli Stati Uniti» al fine di incrementare i suoi titoli di guerra, ribattezzati «titoli di vittoria». Ellington aveva parlato più volte microfono per promuovere i bond: musicista di vaglia, ma soprattutto uomo d’affari concreto e rassicuranti. Nel 1963, però i tempi erano maturi e per quanto amasse il suo Paese, Ellington si rese conto, mentre lavorava a «My People», che fosse giunto il momento di dimostrare il suo peso specifico sulla bilancia di questioni ben più ampie di quelle strettamente musicali, scrivendo una canzone di un genere che non aveva mai composto prima di allora: «King Fit The Battle of Alabam» racconta nei minimi dettagli quanto accaduto a Birmingham in Alabama, dove il capo della polizia bianca, Eugene «Bull» Connor, aveva ordinato di contenete con gli idranti di acqua gelida una sfilata dei pacifici dimostranti neri, sguinzagliando, inoltre, cani inferociti e drogati contro la folla. Fu questa la più potente dichiarazione politica che Ellington avesse mai fatto in vita sua e che lo riscattò agli occhi dei concittadini di colore, i quali lo avevano percepito sempre come un inarrivabile divinità, avulsa dalle problematiche del mondo circostante ed asservita al potere economico dei visi pallidi «inglesi» (i neri chiamavano i WASP, «inglesi», considerandoli sempre usurpatori e colonialisti).

Una volta terminato lo spettacolo teatrale, è grazie all’intuito del produttore Bob Thiele se «My People» sia passato alla storia come opera discografica. Il budget disponibile non consentiva di assoldare tutta l’orchestra ellingtoniana, quindi si pensò ad una sezione fiati ridotta con cantanti, ritmica e percussioni.

Questo è il line-up:

Duke Ellington – direzione e narrazione

Ray Nance – cornetta

Bill Berry, Ziggy Harrell, Nat Woodard – tromba

Booty Wood, Britt Woodman – trombone

Chuck Connors – trombone basso

John Sanders – trombone a valvole

Rudy Powell – sassofono contralto

Pete Clark, Russell Procope – sassofono contralto, clarinetto

Harold Ashby – sassofono tenore, clarinetto

Bob Freedman – sassofono tenore

Billy Strayhorn – pianoforte

Joe Benjamin – basso

Louis Bellson – batteria

Juan Amalbert – conga

Joya Sherrill, Lil Greenwood, Jimmy McPhail, Irving Bunton Singers – voce

L’ensemble fu riunito il il 20, 21 e 27 agosto 1963 presso gli Universal Studios di Chicago, mentre la registrazione su disco venne pubblicata dall’etichetta Contact solo due anni dopo, nel 1965. «My People» è un concentrato di gospel, blues e jazz, e comprende anche un’orazione dello stesso Ellington, attraverso uno speech rabbioso e tagliente, in cui esorta il popolo nero ad unirsi ai manifestanti, specie quanti non avevano ancora preso parte alla protesta contro la segregazione, mentre un ipotetico Martin Luther King incarna il personaggio biblico di Giosuè, sferrando un duro attacco al retrivo Sud degli States che continuava ad innalzare barriere tra neri e bianchi, alte come le mura di Gerico. In «Will You Be There?» e «Ain’t But The One» Ellington medita sul suo rapporto con Dio, così come avviene in una versione molto jazz di «Come Sunday/David Danced Before The Lord» che sarebbe diventata una pietra miliare dei successivi concerti. «My Mother, My Father (Heritage)» è un inno alle lotte di «tutti coloro che ci hanno preceduto», con un richiamo autocelebrativo alla sua infanzia felix narrata e cantata da Joya Sherrill. Come già accennato il climax dell’opera è rappresentato da «King Fit The Battle of Alabam», componimento basato su un vecchio spiritual, con Martin Luther King che assume il ruolo di Giosuè. La conclusione è affidata allo stesso Ellington che chiude con l’autoesplicativa «What Color Is Virtue?». Nelle edizioni successive c’è molto materiale in più che, a mio avviso, produce solo confusione e frammentarietà allontanando dall’idea di opera commemorativa, ma che, per contro, accontenta i completisti e mette in risalto la solita abbondanza produttiva di Duke Ellington per la felicità di talune etichette discografiche.

Questa è la track-list dell’album originale pubblicato nel 1965:

«Ain’t But the One/Will You Be There?/99%»

«Come Sunday/David Danced Before The Lord!»

«My Mother, My Father (Heritage)»

«Montage»

«My People/The Blues»

«Workin’ Blues/My Man Sends Me/Jail Blues/Lovin’ Lover!»

«King Fit the Battle Of Alabam’»

«What Color Is Virtue?»