// di Francesco Cataldo Verrina //
Analizzando la vasta discografia di Keith Jarrett è difficile trovare degli elementi di coerenza tra i vari album, se non per brevi periodi. Spesso ci siamo chiesti da che cosa nascesse questo suo perpetuo mutatis mutandis. Forse, la paura inconscia di ripetersi o di non voler replicare, a prescindere. La sua opera appare alquanto frastagliata e spesso poco catalogabile, in molti casi estranea a quelli che erano talune regole d’ingaggio del jazz. Jarrett, nel momento di massima virulenza creativa, ha tagliato trasversalmente uno dei periodi più complessi e caotici della musica moderna. In quegli anni il jazz, come linguaggio espressivo, aveva sviluppato una molteplicità di esperimenti sincretici che, pur assimilando taluni assunti basilari, non si identificavano nel canone musicale di derivazione afro-americano, se non formalmente. Gli anni ’70 furono tutto ed il contrario di tutto, anni difficili per la sopravvivenza e la distillazione in purezza di qualsiasi genere musicale, poiché ogni elemento tendeva a sovrapporsi ed a mescolarsi, fondendosi in una specie di esperanto sonoro, mai accettato dai puristi, sebbene ricchissimo di deviazioni (o devianze), confluenze, divergenze e varianti come non era mai accaduto in precedenza. Il jazz appariva ingabbiato e stritolato in una fase tumultuosa e magmatica che stentava a stabilizzarsi ed a cristallizzarsi in un ambito formale ben definito, anche a causa della velocità dei plurimi mutamenti che andavano accatastandosi e susseguendosi. Molteplici trasformazioni scaturivano dal reiterato interscambio osmotico fra musicisti di differente provenienza ed estrazione.
Oltremodo parte di questo nuovo linguaggio risultò poco comprensibile alla moltitudine. Il breve periodo in cui Keith Jarrett si legò alla Impulse! rimane uno di quelli più aderenti alla sintassi del jazz, sia pure con molte divagazioni, soprattutto prima che egli si convertisse certi estetismi sbiancati del Nord Europa, che trovavano nell’ECM una sorta di sopravvalutato alfiere di un suono e di una filosofia diversamente jazz. Keith Jarrett era più conosciuto ed apprezzato come pianista, ma la sua nomea di multistrumentista non era da meno, soprattutto dava l’idea di un artista poliedrico in grado di spaziare tra jazz-fusion e free-jazz. In «El Juicio» Jarrett suonò il piano, il sax soprano e il flauto. Al suo fianco c’erano Dewey Redman (sax tenore), Charlie Haden (basso) e Paul Motian (batteria). Ciascuno di essi, in vari frangenti del set, fece ricorso tamburi metallici o altre bizzarre percussioni. Il risultato fu un policromo arazzo sonoro con qualche pennellata di africanismo, soprattutto la sezione ritmica risulta assai dinamica e dominante.
Pubblicato nel 1971, «El Juicio (The Judgment)» si apre con «Gypsy Moth» un allegro groove che riporta alla mente Ramsey Lewis, ma a parte l’atmosfera esuberante che pervade il brano, impressiona soprattutto il lavoro di Charlie Haden sul basso. L’assolo di piano di Jarrett procede in scioltezza, fino a quando il sax tenore di Dewey Redman non entra in scena tendendogli una mano, mentre insieme scivolano veloci sulla tagliente lama di un’intrigante linea melodica. Redman cavalca con il sax a briglie sciolte, mentre il basso di Haden intesse con delicatezza trame sonore, mantenendosi quasi a distanza dalla mischia. «Toll Road», pur essendo meno strutturato, offre l’opportunità di ascoltare le straordinarie abilità di Keith al sax soprano, con uno stile fluido e frizzante. Ottimo il lavoro di Charlie Haden con il basso, sostenuto dal batterista Paul Motian; i due mantengono la quadratura del cerchio, creando una specie di palizzata ritmica tutt’intorno.
«Pardon My Rags» è una fuga di Jarrett per solo pianoforte, il pezzo è molto intenso e ricorda vagamente Art Tatum. «Pre-Judgement Atmosphere» è un preludio breve alla seconda facciata, ma intensamente percussivo; l’assolo di batteria di Paul Motian risulta deviante e volutamente aritmico. La B-side si apre con la title-track «El Juicio», un territorio sonoro molto affollato che si sviluppa nel tempo e si avviluppa nello spazio di 10 minuti e 24 secondi, dove tutto è volutamente disgiunto e decisamente libero. Ancora una volta il contrabbasso di Haden è il punto culminante del brano, mentre strane voci aliene e fantasmatiche, fischietti e sibili rivelano una rarefatta aria di mistero. Ben riuscita l’idea di rappresentare musicalmente l’atmosfera del giorno del giudizio. L’effetto è alquanto suggestivo, quasi pittorico e palpabile, complice anche la copertina del disco. «Piece for Ornette (L.V.)» è una composizione frenetica, in cui il sax contralto di Dewey riesce a brillare, corroborato dalle iniezioni vitali del sax soprano di Jarrett. Ne scaturisce uno dei pezzi più raffinati del jazz dei primi anni ’70, anomalo perché Jarrett non suona il piano suo strumento di elezione, ma il sassofono. Sebbene non fosse tecnicamente un perfetto sassofonista, Jarrett esprime una personalità forte sullo strumento, per trovare l’ispirazione attinge linfa vitale, ma con mano parsimoniosa e moderazione, sia al pozzo di Coltrane che a quello di Ornette Coleman. Il brano evolve in un vivace call-and-response tra i due strumenti a fiato, innalzandosi con passo febbrile, mentre Charlie Haden e Paul Motian devono correre per tenere il ritmo. In chiusura, «Piece for Ornette (S.V.)» che riprende per soli 12 secondi il tema centrale. Qui il quartetto s’invola ulteriormente ad ali spiegate verso la libertà. Ad ogni modo, il titolo dice tutto: Ornette è Ornette Coleman, il decano dei musicisti free-jazz.
«El Juicio» è un disco che tocca molti aspetti del jazz d’avanguardia, in particolare per la ricchezza di suoni e l’ampio spettro poliritmico delle percussioni. Jarrett è polimorfico e sfrutta una sovrapposizioni di conoscenze e linguaggi che hanno contribuito, per paradosso, alla formazione di un specie di «orecchio globale». Sicuramente uno dei più originali album jazz dei primi anni ’70 nell’accezione più larga del termine, forse sottovalutato, sicuramente da riscoprire.
