// di Francesco Cataldo Verrina //

Come dice Bobby Watson nelle note di copertina: «Let the music speaks for itself!», ossia lasciate che la musica parli per sé stessa o di sé stessa, come preferite. In realtà la musica di Bobby Watson racconta un lungo viaggio incominciato alla fine degli anni ‘60, nell’Art Blakey’s Jazz Messengers. Al momento di questa registrazione per la Blue Note, siamo nel 1989 e Bobby Watson stava consolidando la propria fama di custode della tradizione e di templare del vecchio hard bop. La maggior parte delle selezioni incluse in questo album dal titolo emblematico «The Inventor» vennero realizzate insieme al trombettista Melton Mustafa, al pianista Edward Simon, al bassista Carroll Dashiell e al batterista Victor Lewis, mentre il pianista Benny Green, il sassofonista tenore Willie Williams e il percussionista Don Alias sono ospiti solo in alcune tracce. La band recita in uno stile bop alquanto classico, anche se un po’ reinventato, soprattutto evitando accuratamente di stampare una fotocopia del passato, attraverso un mero esercizio di stile. Il gruppo si misura sulla distanza di sei composizioni originali, tre di Watson, due di Lewis, più una di Mustafa, tanto che il risultato finale è un album tutt’altro che prevedibile. Immediato nella fruizione, ma elaborato e ricercato nelle trame sonore e negli spunti creativi.

Veterano dei Jazz Messengers e del rispettabile 29th St. Saxophone Quartet, nonché stretto collaboratore di Wynton Marsalis, Watson dimostra di aver assorbito tutte le giuste influenze da Johnny Hodges a Sonny Stitt, passando naturalmente per Charlie Parker. L’alto-sassofonista non si basa, però, sull’imitazione scontata o sul ricalco dei modelli del passato, ma racconta il suo punto di vista, parlando un idioma post-bop, moderno e personale. Bobby usa una sorta di richiamo per attirare il «Bird» che c’è in lui, creando un piacevole botta e risposta con il trombettista Melton Mustafa. Brani come «Dreams So Real» o «Heckle and Jeckle», attraverso un ben delineato quadro di forti espressioni emotive, conferiscono all’album una brillantezza contemporanea nel segno della migliore tradizione bop.

«The Inventor» si apre con «Heckle and Jeckle», un ruggente bop vecchia maniera, eseguito con spirito innovativo, dove il fraseggio di Bobby Watson appare come un tributo a Charlie Parker. L’improvvisazione è contenuta, ma il lavoro sulla struttura melodica, attraverso il sostegno ed il contrasto con gli altri fiati, assume un formato da manuale; la title-track, «The Inventor» è una lunga fuga tra jazz e soul a tinte fusion. Pur mantenendosi all’interno di un preciso quadro accademico, dove sintassi e regole sono rispettate, tenta qualche contaminazione; «P.D. On Great Jones Street» è un’ondulante ballata che cammina in punta di piedi barcollando tra alti e bassi, dove il sax ricama una melodia per organi caldi. L’immagine che offre è in bianco e nero, mentre la città sembra assopita nel sonno, due amanti si avvolgono in un intenso abbraccio in un locale semi-deserto, stringendo in mano l’ultimo drink. Il fraseggio al contralto di Bobby Watson riporta alla mente il Coltrane delle ballate; «The Sun» si muove sospinto dal desiderio di fondere a caldo vari elementi di sintesi. Lampi funkified, come mine, puntellano e delimitano il campo sonoro, caratterizzato da un solido terreno intriso di linfa blues.

Il primo microsolco della B-side, «For Children Of All Ages», sembra davvero una festa per bambini di ogni età. L’andamento caraibico, che invita spontaneamente alla danza, è quasi un tributo ideale a climi esotici tanto amati da Sonny Rollins e Dexter Gordon. È certamente la melodia più intrigante dell’album, almeno quella più diretta ed immediata, giocata in maniera divertita e ruffiana, quasi da sconfinare nel pop; «Dreams So Real» è un mid-range dalle linee melodiche a presa rapida, suonato con una classe sopraffina ed una contenuta linearità alla Lester Young: quando si dice jazz d’intrattenimento, ma non banale; «The Shaw Of Newark», scritta dal batterista Victor Lewis, è un vivace tributo al compianto trombettista Woody Shaw, un post-bop con effetti contrappuntistici ed assoli a base di raffiche di note ed accordi, sempre a caccia di variazioni sul tema. Parafrasando il titolo in The Show Of Newark, avrebbe potuto essere davvero il nome di uno spettacolo con un inizio a fanfara, spruzzi di ottone a clacson ed imperiosi strappi «brassati» di funk. L’arrivo del piano acquieta le acque, mentre dalla retroguardia basso e batteria appoggiano quasi in maniera dissonate, evolvendo in un crescendo finalizzato a preparare il terreno al nuovo roboante ingresso dei fiati; «The Long Way Home» si caratterizza come una flessuosa ballata che descrive una languida notte di luci ed ombre, dove anime inquiete ed amanti feriti vagano su una lunga free-way senza una precisa meta, macinando chilometri di asfalto e respirando l’aspro sapore della polvere del deserto, mentre le folate sonore provenienti dai solisti in prima linea sembrano bagliori che squarciano il fitto buio dell’esistenza. Sax e pianoforte disegnano figure struggenti, tratteggiando una fitta trama melodica ad alto tasso di liricità.

Al momento della pubblicazione di «The Inventor», Bobby Watson non era certamente un novellino, il lungo curriculum garantiva per lui, mentre il tono deciso del suo contralto aveva contribuito alla buona riuscita di oltre un centinaio di album in veste di sideman e di quasi venticinque sessioni di registrazione in studio come band-leader o comprimario, ma indiscutibilmente con il suo gruppo, gli Horizon, tra la fine degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 diede davvero il meglio. Il disco in oggetto rimane uno dei momenti più alti della sua carriera. La proposizione di arrangiamenti e composizioni originali, uniche nella forma e nella struttura, anziché la scelta di prevedibili standard, spinse questa formazione un passo più avanti rispetto alla disorganizzata moltitudine di gruppi coevi, soprattutto grazie ad un’energia e una chimica di gruppo in grado di conferire al loro suono un marchio riconoscibile. Volendo giocare con la macchina del tempo, potremmo affermare senza tema di smentita che se «The Inventor» fosse stato pubblicato nell’epoca aurea del bop, tra gli anni ’50 e ’60, sarebbe diventato un classico del genere.

Bobby Watson