// di Francesco Cataldo Verrina //

Francesco Guccini dovrebbe essere dichiarato patrimonio dell’umanità, almeno dovrebbe essere candidato al Premio Nobel per la letteratura: ne avrebbe più titolo di Bob Dylan, i suoi testi non solo sono letterariamente più ricchi di conoscenze storiche, filosofiche, mitologiche, ma sono superiori per forma metrica e narrativa a quelli di Dylan o almeno, per non far torto ai «dylaniati», equipollenti per qualità lirica e poetica. Francesco Guccini appartiene ad schiera di eletti, in via di estinzione: i cosiddetti «cantautori», personaggi che come De Andrè, Dalla, Tenco, Endrigo, Battiato, Piero Ciampi, Bertoli, Lauzi, Graziani, lo stesso Pino Daniele hanno abbandonato questa valle di lacrime terrena anzitempo, dopo aver elevato la «parola cantata» a livello di poesia, ciascuno con le proprie caratteristiche e le proprie idiosincrasie. Guccini, oggi ottantenne, andrebbe tenuto in maggior considerazione dai media, specie dalla TV narcotizzata dal circo Sanremese, poco interessato alla musica, ma piuttosto finalizzato a riempire con uno spettacolo trash, tra il kitsch ed ketchup, cinque serate infarcite di sponsor milionari. Chi studia talune fenomenologie, anche dal punto di vista sociologico, sa bene che il Festival di Sanremo è una contraddizioni in termini in relazione al concetto di promozione discografica. Generalmente è già tutto previsto, il direttore artistico è virtuale e conta quanto il due di coppe a briscola, specie se non conosce la differenza tra un accordo maggiore, un rivolto o un accordo di settima; soprattutto dopo qualche settimana di clamore televisivo, nelle quali si accalcano critici improvvisati, squallidi rigurgiti del passato e maître-à-penser di bassa lega, l’80% delle canzoni finiscono nella pattumiera del nulla mischiato con il niente, esattamente da dove erano venute.

Eppure Guccini in poco meno di mese con il suo ultimo album, «Canzoni da intorto» distribuito solo nei formati tradizionali (tangibili), vinile (LP) e poliuretano (CD), ha venduto migliaia di copia divenendo disco d’oro. Tutto ciò produce ricchezza ed economia per l’indotto, non parliamo di visualizzazioni o di like sui social media, talvolta fini a sé stessi o propedeutici alla notorietà del guitto di turno. Dino Stewart, Managing Director BMG dice: «È innegabile checi sia un pubblico anche oltre lo streaming, che apprezza ancora il rito di acquistare un disco e di ascoltarlo dall’inizio alla fine. ‘Canzoni da intorto’ è un concept album che bisogna ascoltare per intero. Farlo uscire in questa modalità era l’unica scelta possibile per valorizzare e distinguere la sua natura». Va sottolineato che perfino la BMG (ex-RCA) inizialmente aveva manifestato qualche remora nella pubblicazione di questo disco di Guccini, personaggio scomodo, specie in questi anni venti del terzo millennio: per l’Italia anni di restaurazione politica e culturale, anzi sotto-culturale, dove si cerca di rivalutare taluni nostalgismi fascistoidi. Il cantautore toscano, «modenese volgare», come egli stesso si definì, (Guccini è nativo di Pavana, frazione del comune di Sambuca Pistoiese, al confine tra l’estremo lembo della Toscana e la provincia di Modena), non faceva un disco da circa dieci anni: «L’Ultima Thule», ristampato in vinile nel 2018, risale al 2012. Ciò non significa che egli si sia mai fermato, tutt’altro, ha pubblicato quasi un libro all’anno, quale continuum di una vena poetica e creativa inesauribile.

Rispetto al disco precedente, che possiamo catalogare come un concept gucciniano in piena regola, «Canzoni da intorto» si basa undici brani appartenenti alla cultura popolare, con ambientazioni dal sapore folk, una raccolta delle sue canzoni del cuore, qui arrangiate e interpretate con ritrovata verve. Pietre miliari della musica folklorica italiana e internazionale con le quali il cantautore ha dato vita a una sorta di antologia musicale, un’opera dal valore quasi educativo. Guccini non ha composto le musiche, né ha scritto i testi, ma è riuscito a penetrarne l’essenza facendo propri i contenuti delle canzoni, come nessun altro avrebbe saputo e potuto fare. «L’album «Canzoni da intorto» è musicalmente ricco e complesso cui hanno partecipato oltre trenta strumentisti provenienti da svariati mondi musicali». – racconta l’arrangiatore Fabio Ilacqua – «Diverse sono le influenze che convivono in questa tessitura, dal folk alla musica popolare, dalla musica bandistica a quella balcanica e da ballo. Tutto nasce e si sviluppa intorno al contenuto di ogni testo, nucleo fondamentale e originario, attorno al quale si muove una ricerca timbrica minuziosa in dialogo continuo con la voce e le parole, prestando attenzione particolare alla ripresa del suono. Sono canzoni di lavoro, politiche, di protesta il cui carattere è definito, oltre che dall’interpretazione vocale, dalla giustapposizione di strumenti come le chitarre manouche e la ghironda, dai fiati alle fisarmoniche, dal suono degli oggetti di tutti i giorni utilizzati come percussioni, dal contrabbasso ai cori alle chitarre elettriche ecc. La lista sarebbe lunghissima. Il risultato è un dialogo costruito con cura e onestà affinché gli arrangiamenti non si limitassero a far da sfondo al cantato, ma raccontassero, attraverso il suono, una versione parallela del testo, tracciando una linea che abbraccia allo stesso tempo la tradizione e il contemporaneo».

In verità, «Canzoni da intorto», titolo alquanto aleatorio, è un disco scomodo che fa riferimento alla canzone partigiana e politica, in un momento in cui in Italia traballa l’idea stessa di Resistenza o quello dei canti anarchici, «Nel fosco fin del secolo», «Addio a Lugano». In questi giorni nel nostro paese la parola anarchia è quasi una bestemmia. Ci sono poi le canzoni dialettali, «El me gatt», «Barun Litrun», «Ma mi», «Sei minuti all’alba» tra le più facili ed ecumeniche della selezione, le quali sanciscono la forte relazione dell’artista con la tradizione popolare. Per paradosso, a parte Fabio Fazio, chi inviterebbe in questi giorni Guccini in TV ( lui, conoscendolo, non muore dalla voglia), tra una sanremata e l’altra, per festeggiare il suo disco d’oro e omaggiare magari il repertorio dei Cantacronache con i «Morti di Reggio Emilia», che narra di una delle pagine più vergognose dell’allora giovane repubblica italiana post-fascista, ancora infestata di virus nostalgici e idee retrive ed antidemocratiche. Facciamo un piccolo flash-back, per chi fosse all’oscuro dei quei luttuosi eventi. La strage di Reggio Emilia avvenne il 7 luglio 1960. Durante una manifestazione sindacale nel centro della città, le forze dell’ordine uccisero cinque civili inermi, tutti operai e padri di famiglia: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli, poi detti «I morti di Reggio Emilia». Come è potuto accadere che nell’Italia repubblicana, le forze dell’ordine sparassero all’impazzata su una folla di manifestanti? Con scene che abbiamo visto in Iran, in Russia, in Venezuela, in Turchia o in Cina? (Cronache degli ultimi anni). In Italia c’era un monocolore democristiano sostenuto esternamente dal MSI, quindi un governo con idee reazionarie, repressive e con il baricentro spostato a destra. Oggi la situazione non è dissimile: per fortuna si usano i decreti e non le pallottole per bloccare i rave-party. In ogni parte d’Italia c’erano manifestazioni di protesta, quindi l’allora Presidente del Consiglio, Fernando Tambroni, diede libertà decisionale alle forze dell’ordine, ossia di aprire il fuoco in «situazioni di emergenza»: alla fine di quelle settimane drammatiche si contarono undici morti e centinaia di feriti.

Ve lo immaginate Francesco Guccini in TV, tra un Morandi, dimentico delle proprie radici emiliane ed un ignaro Amadeus, a ricordare la strage di Reggio Emilia, cantando: «Morti di Reggio Emilia, uscite dalla fossa, fuori a cantar con noi bandiera rossa». Come minimo Ignazio la Russa convocherebbe lo Stato Maggiore dell’Esercito sotto il comando dei figlio Geronimo. Battute a parte, l’Italia è un paese fatto di ignoranti funzionali che hanno difficoltà a comprendere quanto scritto sull libretto delle istruzioni per l’installazione di una stampante da computer. Per la maggior parte delle genti italiche la storia è un fastidioso prurito che fa pensare alla scuola dell’obbligo, la conoscenza è ingombrante, perché in casa non c’è posto per i libri, e poi si risolve tutto con le app. In verità, che cosa sono realmente queste «Canzoni da intorto»? Guccini con ironia, le descrive così: «È un’illazione un po’ affettuosa e un po’ maliziosa di mia moglie che dice che usavo queste canzoni per «intortare», concupire le giovani fanciulle. Quando si è palesata l’intenzione di fare questo genere di canzoni lei ha detto: «sì, le canzoni da intorto«, è difficile però pensare che «Morti di Reggio Emilia» possa in qualche modo intortare qualsivoglia ragazza con l’inno della rivolta. Forse l’atmosfera, forse il periodo, questo non lo so».

Ebbene sì, caro Francesco Guccini, all’epoca c’era il fascino del bel tenebroso con la chitarra che «intortava» le belle ragazze a prescindere dai contenuti delle canzoni; non esistevano You-Tube e Spotify. Infatti quelli, ma soprattutto quelle – e credo abbia ragione la tua consorte – che hanno acquistato l’album, facendolo diventare disco d’oro, siano tutte signore (e signori) di buone letture, di livello culturale medio-alto, ma un po’ attempate e legate ad una certa epoca della storia italiana. Mi è difficile pensare che la Ferragni e Fedez abbiano potuto acquistare una copia in vinile di «Canzoni da intorto». Attenzione, però, non siamo di fronte ad album di cover o un’operazione per fans nostalgici e neppure una rassegna pesante di tematiche politico-intellettualoidi. Nonostante la voce del cantautore sia stanca ed affaticata dall’età e le parole talvolta si spengano in gola, si percepisce uno spiritello ironico e divertito, frutto di un rinnovato entusiasmo che riporta alla mente i fasti ironici di «Opera buffa». Si ha l’idea che Guccini abbia nuovamente voglia di far musica. La nascita del primo nipotino Pietro e il raggiungimento del disco d’oro potrebbero diventare un forte stimolo. E poi se non lo chiamano in TV, Guccini se ne frega, fermo su quanto cantava ne «L’avvelenata», uno dei suoi testi più caustici: «Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa, però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia. Io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi. Vendere o no non passa fra i miei rischi, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso (…) Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni. Voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni. Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate».