// di Francesco Cataldo Verrina //
A volte ci si domanda quali siano le nuove frontiere del jazz, ma soprattutto quali barriere il jazz contemporaneo dovrebbe abbattere per poter evitare di diventare un terreno infertile o auto-sterilizzarsi ripiegandosi su sé stesso e cavalcando i luoghi comuni dell’ibrido corroborante, della contaminazione terapeutica, oppure declamare a memoria la ricetta magica inventata dal Mangiafuoco germanico che indicherebbe una «quarta via», abitata da folletti e divinità della teogonia nordico-scandinava fatta di mash-up pseudo-cameristici, imbottiti di pillole new age e divagazioni da colonne sonore per film senza trama, il cui soggetto è sistematicamente scritto dalla «dea della noia», la Principessa Ovvietà, poco trattata dalla mitologia classica, ma piuttosto amata da cultori di un certo finto-jazz scolorito e senza attributi virili.
Per contro un formula piuttosto interessante sembra essere quella propugnata da un anomalo, ma convincente trio-bassless, già operativo dal 2019, ossia i RedEmma, legalmente rappresentati dal trombettista Matteo Pontegavelli, dal chitarrista Michele Paccagnella e dal batterista Giacomo Ganzerli, i quali per questo esordio discografico si sono avvalsi del supporto di due ospiti d’eccezione, Marcello Allulli al sassofono e Francesco Ponticelli al contrabbasso, i quali completano le parti mancanti, allargano la scena sonora, ed arricchiscono l’interplay di un complesso concept discografico a tratti spiazzante, poiché in maniera intelligente bypassa molti dei luoghi comuni che spesso rendono la scena jazzistica asfittica e ripetitiva. «To Keep The Clouds Company», il primo lavoro discografico dei RedEmma, pur di non facile metabolizzazione al primo impatto, scende tranquillamente a valle planando piacevolmente sul piano inclinato di quella che potremmo definire la new wave del jazz, una specie di free-fusion contemporanea, un’idea di costrutto sonoro basato essenzialmente sull’improvvisazione.
L’album si sostanzia attraverso dieci composizioni: nove originali scritte dal chitarrista Michele Paccagnella ed un cover ben amalgamata nel costrutto complessivo, che per quanto basato su un costante by-play fra i sodali, una sorta di ricomposizione in tempo reale che parte dalle linee strutturali del brano per evolvere in varie direzioni, è piuttosto coerente, almeno nel mood. Su una piattaforma di jazz a larghe falde vengono innestati elementi rock, soul, funk, ethno-music, attraverso un flusso improvvisativo sine die, che tende a destrutturare e ristrutturare i brani in un perfetto alternarsi in prima linea della chitarra di Paccagnella e della tromba di Pontegavelli, i quali svelano ripetute complicità, mentre il batterista ed i due ospiti contribuiscono, con personalità ed estro creativo, alla finalizzazione dell’album. I tre giovani virgulti, titolari dell’impresa RedEmma, al netto di ogni valutazione critica, sono di sana e robusta costituzione musicale, con studi alti e regolari supportati da mentori di un certo prestigio, valide collaborazioni e, soprattutto, tanta gavetta sulle assi dei palcoscenici in vari manifestazioni o eventi jazzistici. «La nostra musica è incentrata sulla improvvisazione, non ci mettiamo paletti di genere», spiega Giacomo Ganzerli. «Quando suoniamo dal vivo spesso non ci diciamo neanche la scaletta. Dopo l’introduzione si accenna al tema e poi si segue lo sviluppo. Ogni sera è un concerto diverso, può capitare che si basa soltanto su un brano».
L’album si pre con «Back And Forth», uno marciante e cadenzato blues dall’aria funeraria, basato su un melodia lacrimevole e coinvolgente al contempo, la quale riporta alla mente alcune ambientazioni a metà strada tra Albert Ayler e Ornette Coleman, sia pur trapiantate in un contesto più tecnologico. «Afro» è un’ Odissea sonora che, dopo un inizio esplorativo dal passo arabescato, si trasforma in piccolo gioiello afro-jazz dai contrafforti funkfied. «Breath» possiede i tratti somatici di una ballata progressiva fortemente lirica e ricca di pathos, implementata dall’ottima alternanza della chitarra e della tromba che la rendono ora più rock, ora piu soulful. «Blues», come direbbero i Latini «nomen omen», è una composizione dall’umore cangiante impiantata su un blues urbano, con variazioni di tono e di stile ed un imprinting piuttosto fusion, che farebbe pensare ai Weather Report o taluni moduli espositive dei Return To Forever di Chick Corea. «Home» si sostanzia come una progressione a fuoco lento che si srotola vaporizzandosi piacevolmente in una sospensione onirica, quasi una camera di decompressione rispetto al resto dell’habitat sonoro. «7» è un numero vincente, basato su sonorità che si addensano in una spirale di suggestioni e stimoli provenienti dai quattro punti cardinali della musica: un perfetto esempio di fusion del terzo millennio.
«Waterfalls» è l’unico componimento non originale del disco: trattasi di un brano scritto da Paul McCartney nel 1980 e contenuto nell’album «Paul McCartney II», il secondo dopo la fine dei Wings, gruppo che McCartney aveva fondato con la moglie Linda dopo lo scioglimento dei Beatles. Parliamo di una ballata che i RedEmma restituiscono al mondo in maniera piuttosto originale e senza alcuna ansia da prestazione. La title-track, «To Keep The Clouds Company», rivela ancora una doppia anima, ma soprattutto rimanda a certe progressioni post-elettriche di Miles Davis, amabilmente divise tra rock e soul. In conclusioni «Arpeggi», inserita nell’album come una bonus-track. Davvero una degna conclusione foriera di un intrigante gioco contrappuntistico tra chitarra e tromba.«To Keep The Clouds Company» dei RedEmma, realizzato grazie anche al contributo del progetto Sonda Music Sharing, Centro Musica Modena e Regione Emilia Romagna, è un disco di frontiera che tenta di aprire nuovi varchi nella labirintica boscaglia del jazz del terzo millennio. A parte il tipico eccesso di zelo da opera prima che si trasduce nell’aver voluto mettere troppa carne a fuoco, per il resto credo che, con l’avvento del 2023, un album di tale fattura sia un’ottima ripartenza per il jazz italiano.
