// di Francesco Cataldo Verrina //
Sgomberiamo subito il campo dicendo che Roland Kirk (che in seguito sarebbe diventato Rahsaan Roland Kirk), è sempre stato evidenziato più per l’aspetto farsesco del personaggio intento a suonare più strumenti contemporaneamente, che non per il suo effettivo valore di interprete e di compositore. Pur essendo stato una sorta di multi-reeds ambulante, Kirk ha sempre dato il meglio di sé quando si è concentrato su un singolo strumento, (uno alla volta), oltrepassando l’idea di un jazz virtuosistico basato su una multifonia circense, talvolta dissonante, che molta presa faceva su quanti si soffermavano in superficie attratti dall’apparato strumentale. Nell’immaginario collettivo del classico hippie/rock/bobber, nonché nella mente di molti si è calcificata l’idea del virtuoso acrobatico foriero di una spettacolarità ostentata (o forse sorgiva ed inconsapevole) che ha finito per mettere in ombra un’innegabile musicalità; così come certe esibizioni teatrali e grottesche al contempo, sono diventate un’arma a doppio taglio ai fini di una precisa collocazione nel contesto bop del personaggio Roland Kirk, sovente lasciato ai margini della storia del jazz moderno, probabilmente perché non sempre preso sul serio da studiosi a vario titolo. Per intenderci, Kirk è stato ingiustamente liquidato per la sua abilità nel suonare simultaneamente più strumenti a fiato, per il saper produrre suoni strani e surreali con il flauto da naso e per l’ostinarsi nell’utilizzo di improbabili supporti sonori come le misteriose pipe nere.
«We Free Kings» è il terzo album in ordine cronologico di Roland Kirk, decisamente più solido e consistente dei precedenti e, con buon probabilità, insuperato dai successivi. Il fruitore si trova di fronte ad una sessione hard-bop-swing debordante di idee, in cui Kirk si cimenta su vari strumenti, ma lo fa evitando di cadere nell’esibizionismo fine a sé stesso. Si tenga conto che siamo ancora in un’epoca in cui si veniva valutati in base alla capacità di muoversi nel solco dell’eredità parkeriana, ma per emergere bisognava avere una propria «voce». In questa sessione il giovane Kirk dimostra di essere in linea con le regole d’ingaggio del periodo, ossia swingare nella tradizione bebop, ma con un suono caratterizzato e riconoscibile. In tal senso, l’album riserva molte sorprese ai cultori del flauto, dove il multiforme Roland eccelle in maniera lampante, ergendosi al di sopra della media del periodo. Basta lasciarsi catturare dalle spire di un vischioso slow blues scritto dallo stesso Kirk, «You Did It, You Did It», un componimento breve, poco più di due minuti ma intenso, un concentrato di creatività in pronta consegna. La raffinata tecnica di scrittura e di arrangiamento del polistrumentista è ben sviluppata in tutti gli originali proposti, così come nell’unico standard presente, «Blues For Alice» di Charlie Parker, a cui Roland aggiunge un contrassegno personale e caratterizzante, raggiungendo un livello che Bird forse non avrebbe mai potuto raggiungere, almeno non da solo: Kirk aveva il vantaggio di essere uno, bino e trino, soprattutto non perde mai la bussola sia come solista che come solista-ensemble, tanto che «Blues for Alice» si colloca al centro direzionale del concept sonoro, divenendo una cerniera, uno spartiacque tra l’uso strumentale singolo o multiplo adottato in varie partiture dell’album. Roland, all’epoca venticinquenne, suonò sassofono tenore, manzello, stritch e flauto, accompagnato da Richard Wyands (già collaboratore di Mingus) al pianoforte, Art Davis al basso e Charlie Persip alla batteria.
Il line-up si muove all’interno di un ampio ma equilibrato range sonoro, tra bop e soul, esaltando lo stile geneticamente polifonico del band-leader. Kirk appare come un libro aperto sulla storia del jazz non disdegnando brevi accenni al più contemporaneo stile coltraniano specie in «My Delight», supportato dalla flessibilità della retroguardia ritmica; così come non cerca mai di occultare taluni riferimenti a Clifford Brown o Sidney Bechet. Registrato il 16 e il 17 agosto del 1961 ai Penthouse Sound Studios di Nola (New York City), «We Three Kings» beneficiò della presenza di una quasi doppia sezione ritmica, con Hank Jones al piano (tracce 1-2-6-8) e Wendell Marshall al contrabbasso (tracce 1-2-6-8) in aggiunta al succitato quartetto base. Nel complesso parliamo di un lavoro poco geo-localizzato del mood di quegli anni: Kirk è gioioso, trionfalistico, carnevalesco, inclusivo, forse più vicino idealmente ad Louis Armstrong, a Jaki Byard, o al suo mentore, Mingus, nel momento più bandistico, che non a Coltrane o ad Ornette. In effetti, «We Free Kings», a dispetto di quanto potrebbe suggerire il titolo, non si riferisce ad un disco free jazz; in particolare la title-track è un brano originale basato sulla melodia dell’inno natalizio «We Three Kings». L’incorporazione di melodie riconoscibili nelle strutture ritmico-armoniche, spesso poco ortodosse di Kirk, si rivelerà come una pratica ricorrente per tutta la sua carriera. Anche in tale circostanza, il polistrumentista ama giocare sui contrasti tra blues e soul collocandoli con estrema facilità in arrangiamenti più strutturalmente orientati al bop. «A Sack Full of Soul» è un costrutto funkified con un tagliente backbeat che supporta magnificamente gli assoli swinganti di Kirk, mentre il sincopato stop-and-go ricorda vagamente «What’d I Say» di Ray Charles.
Le due sezioni ritmiche newyorkesi forniscono un ottimo carburante alle progressioni singole e multiple del band-leader: i pianisti fanno da pungolo e allo stesso tempo riescono a stare fuori dall’agone, mentre il batterista Charlie Persip, l’unico elemento presente in ogni traccia, suona senza soluzione di continuità a tutto campo, aggrappandosi come un rampone in una roccia a qualunque spigoloso cambio di passo offerto da Kirk, mentre i suoi rullanti sembrano essere onnipresenti. L’iniziale «Three for the Festival», una delle migliori performance su disco del multistrumentista, diventerà un asset portante del suo repertorio; mentre «The Haunted Melody», infarcita di lirismo e di poetico trasporto, rivela l’altra faccia della luna di un’ artista proteiforme capace di viaggiare seguendo differenti tabelle di marcia. In «We Free Kings»ogni brano rappresenta il tassello di un mosaico, una singola parte in cui tutto si unisce, nonché un luogo ideale in cui ogni idea confluisce, sia che si tratti di un Kirk singolo o multiplo alle prese con un assolo o dell’intero line-up che si muove in maniera sincrona, quasi telepatica, dove ogni musicista si sente felice e privilegiato di suonare al fianco di un genio in purezza, un uomo la cui cecità (dall’età di due anni) non gli ha mai impedito di vedere lontano come molti altri protagonisti della sua epoca. Per quanto oggi Roland Kirk possa sembrare un personaggio di minor peso rispetto ad altri, forse più fortunati, è stato un attore inter pares al tempo in cui le divinità si mescolavano agli umani sul palcoscenico del jazz per miracol mostrare.
