// di Guido Michelone //

Il problema su ciò che è o non è jazz è vecchio quanto il mondo, o meglio quanto il jazz medesimo: inizia negli anni Venti a New York, in piena era ‘hot’, a proposito di compositori quali George Gershwin o direttori d’orchestra come Paul Whiteman. Prosegue con l’epoca swing quanto, però a posteriori, alcuni critici si chiedono se in rapporto alle big band nere di Count Basie, Jimmy Lunceford e Duke Ellington quelle bianche di Glenn Miller, Harry James e via dicendo siano vero jazz. La discussione si fa poi seria, dura, agguerrita, nell’immediato dopoguerra, con la nascita del bebop che divide in due i jazz fan: per alcuni (tradizionalisti) i soli a fregiarsi del carisma di questa parola sono i dixielander, per altri (modernisti) invece sono Charlie Parker, Dizzy Gillespie e compagni a rappresentare la continuità e la novità dell’esperienza socioculturale afroamericana. E la polemica si estende subito dopo, persino all’interno dei fautori del moderno simboleggiato per i moderati da cool e per i progressisti dal bop stesso.

Quasi tutti però, a livello più di ascoltatori che di musicisti, si uniranno a inizio Sixties, a mo’ di crociata, contro il free, reo di ‘guastare’ l’intero mondo jazzistico, come già sta facendo da un lustro il rock and roll o dieci anno dopo l’unione tra i due microcosmi, ovvero il jazz-rock o rock-jazz (denominato poi fusion). Quando, infine, dagli anni Ottanta in poi la scena jazz europea (e in seguito asiatica, africana, centro-sud-americana) sembra competere alla pari con quella statunitense sul piano dell’originalità, grazie al recupero di sonorità autoctone folcloriche o classicheggianti ecco i detrattori a sostenere il tradimento del jazz puro, la cui purezza è però ancor oggi da dimostrare scientificamente. Tutto questo per dire che in fondo Davide Ielmini ha ragione allorché, nel booklet di “Start from Scratch”, inizia prendendola filosoficamente alla larga: “Le rivoluzioni, intese come movimenti radicali, si accompagnano sempre all’azione. Ma c’è un ‘post’ per tutto e un ‘dopo’ che, lapalissianamente, segna i percorsi artistici (e non solo questi) se c’è stato anche un prima”.

Per Livio Bartolo, stando a Ielmini, a parte il nume tutelare Henry Threadgill, indicabile magari come ‘durante’, il ‘prima’ significa i compositori Arnold Schoenberg, Igor Stravinsky e a modo suo Eric Dolphy, il ‘dopo’ i chitarristi europei Terje Rypdal, Robert Fripp, Marc Ducret. In tal senso ancora Ielmini, sempre nel booklet, parla giustamente di collage sistemico e neocamerismo futurista per questo lavoro complesso e positivamente risolto: una suite in cinque parti per sestetto con un organico insolito, dal leader (chitarre) alla commistione di violino (Anais Drago), tromba (Pietro Corbascio), flauti (Aldo Davide Di Caterino), clarinetti (Andrea Campanella), batteria (Francesca Remigi). Il riferimento, per l’impianto generale, è dunque al post-free orchestrale del Threadgill degli ultimi trent’anni, mentre il solista guarda piuttosto ai guitar-men sopraelencati. Alla fine si tratta forse di una third stream music attualizzata da svariati elementi sonori, dalla forte progettualità riversata su ottimi livelli performativi: jazz o non jazz? Sta di fatto che dalla prima all’ultima nota il disco mantiene un’autentica e originale forza in chiave espressiva e drammatica.

Livio Bartolo