// di Roberto Biasco //

Edward Kennedy “Duke” Ellington (1899 – 1974) è stato e resta figura centrale della storia del Jazz e di tutta la musica popolare, e non solo, del secolo scorso.

Pianista, compositore e band leader, la sua lunghissima carriera si è snodata dagli anni venti fino alla sua scomparsa, mezzo secolo durante il quale, oltre a lasciare una straordinaria eredità di composizioni e canzoni firmate sia di suo pugno – o in collaborazione con il suo fido arrangiatore Billy Strayhorn – ha guidato ogni tipo di formazione, dai piccoli combo alla grande orchestra, cimentandosi spesso, soprattutto negli ultimi anni di carriera, in lunghe e complesse composizioni orchestrali come le sue famose “Suites” o gli impegnativi “Sacred Concerts”. Parliamo di uno dei giganti del Jazz, la sua enorme influenza è giunta anche agli artisti delle generazioni successive, come Charles Mingus, suo devoto discepolo, Max Roach (con i quali incise il memorabile “Money Jungle” su Blue Note in trio) e persino John Coltrane (“Duke Ellington & John Coltrane” su Impulse!) con i quali ebbe l’opportunità di incidere dei meravigliosi dischi negli anni Sessanta calandosi perfettamente nel mood espressivo delle nuove generazioni.

Bisogna ricordare che alcuni grandi musicisti Jazz delle epoche successive, artisti militanti e politicamente impegnati, apparentemente lontani dalla poetica di Ellington, a posteriori ne hanno riconosciuto l’enorme eredità artistica, basti pensare ad Archie Shepp ed alle sue ripetute e sofferte rivisitazioni di “Sophisticated Lady”, “Lush Life” o “In a Sentimental Mood”. “Il mio strumento non è il pianoforte, è l’Orchestra” amava ripetere, e la Big Band resta il suo marchio di fabbrica indelebile e la Duke Ellington Orchestra rimane per definizione la Big Band per antonomasia. Dopo la scomparsa del “Duca” fu il figlio Mercer Ellington, trombettista e arrangiatore, a prenderne in mano le redini per ancora un ventennio, con fisiologici avvicendamenti nell’organico dovuti alla naturale progressiva scomparsa dei leggendari protagonisti dell’epopea della band. Oggi la Duke Ellington Orchestra continua a girare il mondo portando con sé la testimonianza dell’immensa eredità del leader, grazie al sostegno della fondazione oggi guidata dal nipote Paul Mercer Ellington, e sotto la direzione del sassofonista Prof. Charlie Young III – compositore, direttore d’orchestra e docente presso la Howard University di Washington.

In questi giorni l’Orchestra è stata in tour in Italia dal 20 al 26 febbraio con date a Firenze, Roma, Genova, Bologna e Milano. Occasione quindi da non perdere visto che proprio quest’anno cade il centenario della fondazione dell’Orchestra, che tra l’altro mancava dall’Italia ormai dal lontano 2015. Negli anni d’oro l’orchestra era una sorta di “Dream Team” del Jazz, vantava la presenza di solisti prestigiosi, personalità fortissime abbinate ad un timbro di “voce” strumentale unico. Basta ricordare tra i tanti solo alcuni tra i tanti nomi eccellenti: Cat Anderson, Cootie Williams, Clark Terry, Britt Woodman, Jimmy Blanton, e la leggendaria sezione delle ance: Johnny Hodges, Ben Webster, Paul Gonsalves, Jimmy Hamilton, Russell Procope, Harry Carney. Oggi propone una formazione con musicisti non troppo famosi, soprattutto in Europa, ma eccellenti professionisti dotati di una solidissima preparazione di uno stile assolutamente impeccabile.

Questa è la formazione annunciata in tour: Charlie Young III – Conductor & Alto Sax; Frank Michael Basile – Baritone Sax; Morgan John Price – Tenor Sax; Mark Ivan Gross – Alto Sax; Shelley Carrol – Overton Paul Sr. – Tenor Sax; Andrae Ernesto Murchison – Trombone; Andre Lenard Hayward – Trombone; Tyrone Jeffery Block – Trombone; Thomas Whitaker Williams Jr – Trumpet; Bryan Edward Davis – Trumpet; Ravi Hassan Best – Trumpet; James Delano Zollar – Trumpet; Robert Lovell Redd – Piano; Hassan Abdul Ash-Shakur – Bass; David Francis Gibson – Drums.

La sigla di Take the A Train irrompe in un Teatro Olimpico gremito in ogni ordine di posti, e sotto la guida sicura di Charlie Young, per l’occasione presentatore e maestro di cerimonie (oltre che sassofonista di vaglia) l’Orchestra comincia a declinare gli immancabili cavalli di battaglia del repertorio Ellingtoniano. Ecco allora una dietro l’altra Satin Doll, Latin American Sunshine, la singolare rivisitazione di In The Hall of The Mountain King di Edvar Grieg (tratta dal Peer Gynt)e poi una magnifica Mood Indigo – proposta con un delizioso e suggestivo arrangiamento per clarinetto, tromba e trombone – seguono Don’t Get Around Much Anymore, e la sempre seducente Sophisticated Lady magistralmente condotta dal sax baritono di Frank Basile che si produce in una splendida cadenza finale. Un possente solo di batteria di David Gibson introduce il “Jungle Sound”di Caravan, e la sfilata dei classici immortali continua con Flaming Sword e In a Mellow Tone; ci si avvia poi verso il finale con una trascinante Perdido di Juan Tizol,seguita a ruota da una davvero superlativa interpretazione del capolavoro Black and Tan Fantasy.

Satin Doll sarebbe la sigla di chiusura, ma non poteva assolutamente mancare il bis, reclamato a gran voce dalla platea, nel quale un lungo e trascinante assolo del sax tenore di Shelley Carrol manda ancora il pubblico in visibilio. Un concerto magnifico che ha sicuramente appagato sia un pubblico “generalista”, non necessariamente devoto al jazz, sia gli appassionati melomani certamente impressionati dalla compattezza dell’Orchestra e dall’eccellenza dei solisti. Una splendida occasione per riascoltare un repertorio immortale, riproposto in maniera impeccabile. Forse, cercando il pelo nell’uovo, l’unico limite possiamo trovarlo proprio in un eccesso di perfezione formale che affiora in tutta la performance. Tutti i brani rimangono all’interno dei canonici cinque minuti, e tutti gli assoli, perfettamente calibrati, restano contingentati all’interno dei quadratissimi arrangiamenti. Verrebbe da pensare che, visto il livello di eccellenza dei singoli, un po’ di “libera uscita” non avrebbe guastato. Il Jazz per sua natura vive e si nutre di estemporaneità e propensione al rischio, nel nostro caso è mancato un po’ l’“effetto sorpresa” indispensabile per fornire un po’ di “suspence” ad uno spettacolo comunque di alta classe.