// di Francesco Cataldo Verrina //

Nella tradizione del jazz pre-bellico, la grande orchestra era una sorta di «circus», una macchina acrobatica finalizzata ad uno spettacolo, che aveva soprattutto finalità ludiche: il pubblico doveva ballare, cantare e sognare ad occhi aperti. Il repertorio delle big band era alquanto articolato e comprendeva in genere alcune ballate lente, qualche pezzo dall’andamento latino-caraibico, a volte perfino dei cantati con uno o più jazz-singers ospiti fissi o special-guest occasionali. La big band, prima dell’avvento del bop ha dominato la scena in maniera preponderante almeno per un ventennio, imponendo varie tipologie orchestrali, che lasciavano intravedere delle diversità, a seconda che il «capobanda» fosse un bianco o un nero, ma ognuna di esse aveva le proprie caratteristiche e di suoi solisti, molti dei quali riuscivano a caratterizzarne lo stile. Dopo la seconda guerra mondiale, le orchestre crollarono sotto il peso eccessivo dei costi di gestione, ma soprattutto l’avvento dei piccolo combo bebop sembrava l’avesse soppiantata confinandola solo ai momenti istituzionali, commemorativi ed autoreferenziali o ai raduni di attempati nostalgici. Di certo, la big band rappresenta il jazz nella sua essenza storica, essendo l’epitome stessa del swing in tutte le sue molteplici sfaccettature e scuole di pensiero.

Il progetto «One Finger Snap» della Marco Postacchini, pubblicato da AlfaMusic, coglie appieno il senso della grande orchestra jazz, sia nelle partiture collettive che negli spazi dedicati ai solisti e alle special guest. Il sassofonista-arrangiatore racconta così del suo progetto: «L’intenzione di registrare questo disco è maturata probabilmente nel corso degli ultimi dieci anni. Un periodo particolarmente prolifico per la mia attività di arrangiatore/compositore, all’interno del quale ho avuto spesso l’occasione di scrivere per la formazione della Big Band, e altrettanto spesso il frutto di questo lavoro vedeva collocazioni sparse in un gran numero di produzioni sia concertistiche che discografiche, a volte molto diverse tra loro. La Big Band per me costituisce una delle prime folgorazioni che ho ricevuto dal Jazz fin da quando ho iniziato a studiare e approfondire da adolescente questo magnifico e al tempo stesso complesso genere musicale».

Sin dalle prime note dell’album si capisce subito che Postacchini conosca a mena dito la lezione dei grandi maestri come Duke Ellington, Benny Goodman, Count Basie, Fletcher Henderson e tanti altri, a cui paga un certo tributo in termini d’ispirazione. «Lo studio della scrittura e della composizione ha sempre accompagnato di pari passo lo studio della parte più pratica legata all’esecuzione e all’improvvisazione» prosegue Postacchini, «sentivo quindi da tempo l’esigenza di mettere in ordine le idee, capire se quello che avevo scritto nel corso degli anni avesse un suono comune o comunque dei tratti caratteristici riconducibili ad un’unica penna». Un’operazione di questo tipo nell’era del web 4.0 potrebbe sembrare nostalgica, ma in realtà «One Finger Snap», guarda al passato attraverso lo specchietto retrovisore solo a livello ispirativo e coglie perfettamente il senso estetico del formato big band, sia in maniera formale che sostanziale; per contro la sapiente combine di voci, suoni ed arrangiamenti, ne fanno un disco di moderno jazz mainstream. Si potrebbe parlare di tradizione e contemporaneità in perfetto equilibrio, ma senza prendere vie traverse com fanno molte big band post-scolastiche, le quali precipitano sovente nel baratro di fallimentari tentativi di Third Stream o di vaganti musiche per colonne sonore da telefilm a basso costo e dalle sceneggiature improbabili.

Le parole di Marco Postacchini sono piuttosto illuminanti: «E così ho scelto alcuni dei lavori che per certi aspetti meglio rappresentavano a mio avviso l’evoluzione e lo sviluppo del lavoro di scrittura soprattutto degli ultimi tempi. E’ stato come fermarsi di colpo e guardarsi indietro, rischioso ma al tempo stesso molto stimolante. Un’illuminazione fulminea sul passato più recente, «One finger snap» per l’appunto». Il sassofonista-compositore ha saputo amalgamare perfettamente nove brani, orchestrati con l’intelligenza di un arrangiatore lungimirante, nei quali ha infilato due sue composizioni originali che, senza irriverente pretesa, danno quel senso di modernità in più. Soprattutto Postacchini guida con agilità un’orchestra di oltre 20 elementi:Davide Ghidoni prima tromba e flicorno, Antonello Del Sordo tromba e flicorno, Luca Giardini tromba e flicorno, Samuele Garofoli tromba e flicorno, Massimo Morganti primo trombone, Carlo Piermartire trombone, Paolo Del Papa trombone, Pierluigi Bastioli trombone basso, Simone La Maida primo alto e soprano sax (flauto sulle tracce 4,7), Maurizio Moscatelli sax contralto e clarinetto, Marco Postacchini sax tenore (flauto sulle tracce 3,4,,6,7,9), Fabio Petretti sax tenore (flauto sulle tracce 1,4,6,7,8,9), Leonardo Rosselli sax tenore (flauto sulle tracce 2,3,5), Rossano Emili sax baritono e clarinetto basso, Mauro De Federicis chitarra, Emanuele Evangelista pianoforte e fender rhodes, Gabriele Pesaresi contrabbasso e basso elettrico, Stefano Paolini batteria, Peppe Stefanelli percussioni. Ospiti speciali: Chiara Pancaldi voce (sulle tracce 3,7) e Joe Pisto voce ( sulle tracce 4,6).

L’apertura del set è affidata alla title-track, «One Finger Snap», composizione a firma Herbie Hancock, ricca di ottani funkified che conferiscono all’orchestra una forza propulsiva di notevole impatto: è nato il swing del terzo millennio, con la velocità del bop ed i brass «cazzuti» e taglienti del funk. Siamo vicini ad un’ambientazione alla Henry Mancini. Con «Hold Box», il primo originale scritto da Postacchini, l’ensemble continua a macinare chilometri di nastro a velocità sostenuta ed il pensiero corre ad una struttura a metà strada tra Count Basie e Maynard Ferguson, perfino a talune atmosfere tipiche della Blaxploitation. Con «Insensatez» di Antonio Carlos Jobim si apre il sipario su un intrigante scenario jazz-bossa che si agisce su un ventilato bagnasciuga sonoro ricco di emozioni dispensate dall’avvolgente vocalità di di Chiara Pancaldi. «Aqui Oh! di Toninho Horta sottolinea la vocazione della big band ad esplorare le atmosfere brasiliane, ma qui si procede a tempo di jazz-samba ed in velocità, mentre l’ossatura ritmica del brano, al netto del cantato di Joe Pisto, rimanda alle orchestrazioni di Dizzy Gillespie, il primo a stabilire un ponte tra Nord e Sud America. «Recordame», standard a firma Joe Henderson, riporta l’ensemble sull’asse iniziale impostato su un architrave swing-bop-latino a tinte soulful, ottimo il lavoro a turno di tutti solisti.

La classica «Nature Boy» di Eden Ahbez, cantata da Joe Pisto con tanto di scat finale, viene trattata come una struggente ballata, alimentata nella parte intermedia strumentale da una convincente chitarra che gli garantisce elementi di spendibile modernità e connotati da airplay radiofonico. «Chega De Saudade» di Antonio Carlos Jobim viene corroborata e rivitalizzata nella impianto strutturale, dove soprattutto i fiati, sia nelle parti collegiali che soliste, rendono il tema molto più R&B che bossa; per contro il cantato riporta alla mente talune performance dei Manhattan Transfer, implementate sulla linea di confine USA/Brasile. «Eiderdown» è un evergreen scritto da Steve Swallow, conosciuto come uno dei primi contrabbassisti jazz a passare al basso elettrico, «un jazzista delle paludi» come lo avrebbe definito Mingus. Infatti, costrutto sonoro di «Eiderdown», nonostante il lussureggiante arrangiamento, si percepiscono tutti gli elementi di un jazz alquanto vicino allo stile del Pacifico o delle paludose zone del Mississippi. In conclusione, il secondo componimento originale scritto dal titolare del progetto, «Smooth Funk», come dire nomen omen, dove la big band passeggia con disinvoltura e senza attrito alcuno su un terreno funkified: tutto fila «liscio» come in un disco di Sadao Guatanabe o dei Cruseders. «One Finger Snap» della Marco Postacchini Big band, registrato nelle Marche, al Naive Studio di Fano (PU), è un lavoro pregno di sonorità e di idee, basato su arrangiamenti precisi e mercuriali, ma mai ridondati, privo di virtuosismo calligrafo e conservatoriale, un disco capace di adattare il più classico dei formati jazz ad una modernità urgente e facilmente spendibile.