// di Irma Sanders //
Parlare di jazz degli anni ’80, senza incorrere nella facile commistione e confusione, non è sempre facile; sono stati gli anni del trionfo dello «smooth jazz», dove tutto sembrava possibile, qualunque sonorità, anche la più astrusa poteva essere associata a delinquere al jazz e tirare fuori una mistura indefinita, a volte più vicina al pop da sfilata di moda o ad un sottofondo da sala d’attesa, altre più ardite, dove rock, funk e world music coesistevano, ma non sempre la coabitazione era un affare semplice da sostenere. Come dicevano i latini: «o tempora, o mores», più semplicemente aggiungo io, ogni epoca ha i suoi tormenti, dettati da usi, costumi, tendenze ed interessi di mercato. Distillare dei lavori di jazz in purezza in quel vortice caotico di sonorità contaminanti e condizionanti non era impresa agevole. Alcuni artisti ci riuscirono.
Signore e signori, qualora non lo abbiate mai conosciuto, vi presento il Terence Blanchard e Donald Harrison Quintet, ensemble formato da autentici musicisti jazz con tanto di pedigree! I due diedero vita al progetto poco più che ventenni; Terence Blanchard proveniva dalla big band di Lionel Hampton, mentre Donald Harrison aveva all’attivo già molte collaborazioni con Roy Haynes, Jack McDuff, Art Blakey’s Jazz Messengers e Don Pullen.
Pubblicato nel 1988, «Black Pearl»è un album diviso a metà strada tra jazz d’atmosfera con un’impostazione vagamente cool e un bop più mosso di tipo classico. La divisione tra le due facciate dell’album è netta. «Black Pearl» è il risultato del quinto ed ultimo set in studio del Terence Blanchard-Donald Harrison Quintet, che si avvale della stessa affiatata sezione ritmica del loro precedente album: il pianista Cyrus Chestnut, il bassista Reginald Veal e il batterista Carl Allen. Inoltre, in due brani si aggiungono il vibrafonista Monte Croft e il percussionista Steve Thornton, mentre il chitarrista Mark Whitfield fa capolino in in «Infinite Heart». Ad eccezione di «Somewhere» di Leonard Bernstein, il repertorio eseguito è suddiviso tra le composizioni originali dei co-leaders. Harrison scrisse anche due importanti tributi, ossia «Selim Sivad» (Miles Davis nome e cognome al contrario) e «Dizzy Gillespie’s Hands». Tutte e cinque le pubblicazioni del Quintetto meritano di essere tenute in considerazione, ma quest’ultima in particolare, dove l’affiatamento e la loro fase evolutiva ed espressiva raggiunge il climax.
Blanchard-Donald Harrison Quintet è da ritenere una delle più valide compagini di jazz acustico della seconda metà degli anni ’80. Come già detto, in quegli anni la faceva da padrone la «fusion» con tutte le sue implicazioni e complicazioni; soprattutto il jazz sembrava arrivato al capolinea, ad un punto di non ritorno, che faceva pensare molto più ad una deriva che non ad un’evoluzione dinamica del fenomeno: poteva essere contaminato con qualsiasi cosa, e tanti prodotti sperimentali, spesso confezionati in vitro, venivano accostati al jazz, pur avendo con esso un rapporto di parentela piuttosto alla lontana.
Il disco si apre con «Selim Sivad», piccolo gioiello compositivo, dove il sassofono prende subito la scena, con un fraseggio corto, pulito e circolare, quasi a risucchiare la tromba che invece si esprime con forte respiro fino all’arrivo del piano: nessuna fuga sui generis, tutto ordinato e lineare con la sezione ritmica che sostiene convintamente i due co-leaders sino a scivolare in un finale quasi sfumato. Il punto più alto a livello creativo è forse la title-track, «Black Pearl», un un mid-range di notevole eleganza e raffinatezza formale scritto da Blanchard, imperniato sul lavoro del pianoforte, segnato dall’incedere felpato dal basso e dagli assoli di tromba e sax che ricamano e sviluppano un’atmosfera intrigante alla Miles Davis (senza voler esagerare); decisivo il contributo del vibrafono di Monte Croft e delle percussioni di Steve Thornton, che si adeguano all’insieme in modo rispettoso con alcuni spaziosi assoli, quasi spazzolati e sottotraccia. «Ninth Ward Strut» è uno swing dinoccolato, a tratti hard bop, con delle incursioni up-tempo, vagamente in contrasto con il lato più morbido e dimesso dell’album: «Infinite Heart», è una ballata romantica, con inserto chitarristico e fraseggi molto spaziati dal sapore West Coast, dove il sax di Donald Harrison si alterna alla tromba di Terence Blanchard, tanto da riportare alla mente i duetti Mulligan/Baker dei tempi migliori.
La B-side si apre con «The Center Piece» dove soprattutto il call-and-response tra il sax e la tromba, riporta alla mente «Miles E.S.P.», album del 1965 che Miles Davis registrò con Wayne Shorter; appare naturale che giovani musicisti avessero appreso a menadito la lezione del passato; lo stesso dicasi per «Dizzy Gillespie’s Hands», dove la struttura ritmica e l’andamento dei fiati richiamano quelli di una volta, tipici del vecchio bop. «Somewhere» e «Toni» sono due ballate dalla profondità abissali eseguite con fare lento e cadenzato, ma con un crescendo finale.
«Black Pearl» si caratterizza, rispetto ai lavori precedenti, per la netta separazione della velocità dei brani, collocandoli distintamente sulle due facciate dell’album, quasi a voler dividere l’umore del disco e dare una doppia sensazione di piacere, magari in momenti diversi della fruizione. Incrementate pure le ballate moderate rispetto ai loro album precedenti, che sottolineano la maturità e l’evoluzione dei due soci, sia come arrangiatori che compositori. Il disco è consigliatissimo, soprattutto agli amanti del jazz mainstream e facilmente fruibile, ben ordinato nella sequenza e nella struttura armonica e melodica.
