“Mi interessa cosa succede alla musica quando altre persone la usano. Mentre ci sono compositori che non amano che qualcuno tocchi la loro musica, io penso che chiunque dovrebbe farlo, perché gli altri fanno cose sulla mia musica che a me non vengono in mente. Sono l’opposto dell’essere possessivo nei confronti di un pezzo.” (Philip Glass)
// Gianni Morelenbaum Gualberto //
Philip Glass, che peraltro mastica pure un decente portoghese, ha trascorso e trascorre periodi di tempo in Brasile. Come altri prima di lui, basti pensare a Darius Milhaud o a Louis Moreau Gottschalk. Eppure, nessuno come lui ha saputo cogliere l’anima profonda, pulsante, misteriosa della Natura brasiliana come in “Águas da Amazônia, Sete ou oito peças para um balé”, scritto nel 1993 per lo spettacolare gruppo di percussioni Uakti e il non meno impressionante Grupo Corpo, eccellente gruppo di danza contemporanea di Belo Horizonte, Minas Gerais. Il miracolo già era stato anticipato da “Itaipú”, cantata per coro e orchestra commissionata da Robert Shaw e dalla Atlanta Symphony Orchestra nel 1989, in cui Glass rievocava la diga sul fiume Paraná, ai confini fra Brasile e Paraguay: una pagina in cui il respiro gigantesco era ritratto mirabile, quasi oppressivo, di una dimensione naturale in cui persino una colossale costruzione umana appare minuscola, fragile e trascurabile di fronte a una forza naturale incontenibile, in un equilibrio che ispira inquietudine e terrorizzante precarietà.
In “Águas da Amazônia” la percezione del mistero naturale brasiliano si rivela ancora più affinata, vibratile, sfuggente, drammatica. Soprattutto, Glass coglie gli echi di un rituale che precede l’essere umano e di cui quest’ultimo è -dalla sua nascita- trascurabile e atterrito spettatore, ospite di un mondo antichissimo con cui è stato stretto un patto fragile. La realtà dell’Amazzonia, spesso attaccata dall’incoscienza criminale di uomini e governi, tollera a stento le offese e il patto con l’essere umano può rompersi con risultati drammatici. Glass coglie con notevole abilità e con un manifesto senso di rispetto e meraviglia l’umidità stillante, l’immensa cupola di penombra creata da un fogliame così fitto da impedire il passaggio della luce, il brulichìo frenetico di animali e corsi d’acqua, i richiami degli uccelli, l’enormità maestosa di uno spazio che la Natura riempe talmente da farlo sentire opprimente e angusto. La nazione brasiliana è un costante riflesso di tale immensità, dal brutalismo di Brasília e Niemeyer alla foresta d’asfalto di São Paulo e dei suoi 22 milioni di abitanti: Glass riporta con sguardo visionario e poetico la pulsazione scura che dalla foresta amazzonica muove con l’infinito snodarsi di fiumi l’intero Paese fino alle sue estreme frontiere.
“Quando parlo con i giovani compositori, dico loro: So che siete tutti preoccupati di trovare la vostra voce. In realtà la troverete la vostra voce. A 30 anni la troverete. Ma non è questo il problema. Il problema vero è che, una volta trovata la propria voce, bisogna liberarsene. Occorre trovare un motore per il cambiamento. Ed è questo che fa il lavoro collaborativo. Qualsiasi cosa facciamo insieme ci renderà diversi (…) Arthur Russell era un violoncellista molto bravo. Stavo facendo un pezzo teatrale per le Miniere di Mabou di Beckett, e gli scrissi un pezzo per violoncello che a lui piacque molto. Sono tornato circa tre mesi dopo, l’ho sentito e gli ho detto: “Arthur, è bellissimo, ma che fine ha fatto il pezzo?”. E lui rispose: “No, no, è quello che hai scritto tu”, e io dissi: “Arthur, non è più quello che ho scritto io, ora è il tuo pezzo”. Lui pensò che mi stessi arrabbiando. quindi si scusò ma lo rassicurai dicendogli: “No, no, no, credo che dovremmo mettere te come compositore”. Aveva raggiunto il punto di trasformazione. I cambiamenti incrementali avevano trasformato la mia compsizione in un’altra cosa. Mi piaceva l’idea che l’avesse fatto. E mi piaceva soprattutto l’idea che l’avesse fatto inconsapevolmente senza saperlo.” (Philips Glass)