// di Kater Pink //

D. Un tempo, non molto in realtà, in Italia si usava spesso la parola ‘provincialismo’ quando si trattava di parlare di jazz, riferendosi via via al pubblico, ai musicisti, alle istituzioni, ai discografici, a tutti (o quasi) insomma. Ma è una parola che dobbiamo/vogliamo/possiamo ancora usare?

R. Se l’America è il “Grande Paese” per eccellenza, l’Italia è “la Grande Provincia” per antonomasia. Se per il jazz dobbiamo guardare agli USA come punto di riferimento, ci rendiamo conto che il paragone non regge, ma Roma è non Parigi e Milano non è Londra, e non sto qui a spiegare il perché. L’Italia, a parte i fenomeni musicali indigeni come la musica operistica, le tarantelle e l’Italo Disco (fenomeno musicale che consiglio di approfondire, nonostante sia riservato al loisir) ha sempre vissuto di luce riflessa, andando a rimorchio di tutti i fenomeni derivati dalla musica ritmica di matrice anglo-afro-americana: dal rock all’hip-hop, dal jazz al beat e via discorrendo. Musicisti, discografici, organizzatori di eventi sono vittime di un sistema “all’italiana”, speso basato sull’improvvisazione e pressapochismo. Provincialismo è una bella espressione, non è deleteria, descrive i tratti dei un paese come l’Italia fatto di tante piccole realtà locali, più lungo che largo e con marcate differenze culturali e linguistico-dialettali.

D. Ammesso dunque che provincialismo rinvii sicuramente a una realtà complessa senza troppi manicheismi, possiamo comunque affermare che ora la situazione jazzistica italiana è provinciale o provincialistica in alcuni casi, in altri no. Cominciando dagli aspetti negativi o deleteri, cosa rimane di provinciale nel jazz in Italia secondo te?

R. Si consideri che la cultura discografica di molti appassionati di jazz in Italia è da edicola, basata su raccolte di album assemblati secondo una logica frammentaria ed approssimativa, e raccontata con una modalità da sussidiario scolastico. In riferimento alle tipologie di musica emerse nel corso del Novecento l’Italia resta “un consumatore secondario di energia”, uso questa metafora relativa non alle compagnie petrolifere, ma alla natura, dove gli animali erbivoro sono i principali consumatori di energia, mentre i carnivori hanno bisogno di nutrirsi degli erbivori per poter vivere. Il jazz in Italia non è un fenomeno provinciale ma un fenomeno marginale: lo è a Milano come a Catanzaro, a Bologna come a Brindisi. Il provincialismo o la mentalità provinciale, ammesso che ne esista una o più d’una nel nostro paese, riguarda qualsiasi manifestazione dell’ingegno umano. Se parliamo di espressioni artistiche capaci di travalicare i patri confini, Napoli , per lungo tempo, è stato un centro propulsore riconoscibile di idee musicali, attraverso uno scambio osmotico con musicisti provenienti da varie parti del mondo. Mi riferisco a personaggi come Pino Daniele, Enzo Avitabile, James Senese, Tony Esposito, Tullio De Piscopo. Alcuni jazzisti italiani che, nel coso dei decenni sono assurti agli onori della cronaca a livello extra-territoriale, restano dei casi isolati e non l’ espressione di un movimento.

D. E ora la pars costruens: in cosa l’Italia del jazz non è provincialista rispetto altri Paesi (Stati Uniti o Nord Europa per esempio)?

R. L’Italia è un “unicum” in tutto rispetto agli altri paesi del mondo: dalla politica alla gastronomia, dallo sport alla cultura, dall’arte alla moda, ogni cosa viene gestita, come dicevo, “all’italiana”: tutto ciò riguarda anche l’universo musicale a 360° . Più che provinciale, l’Italia è una sorta di sistema feudale chiuso basato sul nepotismo e sui legami tra consanguinei, parenti, affini, amici ed amici degli amici. I Direttori di giornali sono espressione dei politici, le cattedre universitarie vengono assegnate non per merito ma per conoscenza, le case editrici pubblicano solo i libri solo di calciatori, vip, soubrette e saltimbanchi. È questa forse la particolarità che ci contraddistingue a vari livelli, una sorta di “gene italico” che vive e si riproduce per partenogenesi all’interno di un corto circuito mediatico-massonico-mafioso-politico. Il jazz ne fa le spese, ovviamente.

D. C’è qualcosa in cui siamo persino superiori agli altri per quanto concerne un modus anti-provinciale o non-provincialistico?

R. Siamo diversi, non superiori: clamorosi, ridondanti, guasconi, villani ripuliti, ignoranti per carenza enzimatica di lettura. L’Italia è il paese degli eccessi che si consumano su una line retta che va dalla prima della Scala di Milano fatta di tacchi a spillo, pellicce e smoking presi a nolo ed il Festival di Sanremo, che in massima parte costituisce una sorta di restaurazione dello status quo ante, del conservatorismo melomane e del gargarismo canoro. Il jazz è invisibile ed assente, è fuori dal circuito mediatico e propagandistico, non è merce che interessa ai “governi”: produce numeri bassi, anche laddove i grandi eventi legati al jazz, hanno finito per diventare altro

D. Ho di recente riletto alcune annate di Musica Jazz, grosso modo dal 1969 al 1973, rintracciando nelle celebri Lettere al Direttore alcuni temi ricorrenti purtroppo anche oggi, sui social, come ad esempio l’ostilità verso il free e il rock (e di conseguenza il jazzrock, allora non ancora battezzatto fusion). Provincialismo anche questo?

R. Non mi dici nulla di nuovo, sono stato anch’io un incauto lettore di certe riviste, fino a quando non ho capito il meccanismo. Senza presunzione, mi sono affrancato presto da questa mentalità italiota e conservatrice, che ama vivere in una zona comfort, spesso a causa dei limiti culturali di una certa generazione di scrittori e giornalisti, che guardavano (guardano) sempre il proprio ombelico non riuscendo a vedere oltre il proprio naso. I mezzi d’informazione in Italia in passato non sono stati capaci dei cogliere il senso di novità: sono stati sempre adattivi arrivando in un secondo tempo per pure esigenze commerciali. Ricordo che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, in Italia per molte riviste musicali, anche non specializzate, jazz era sinonimo di fusion. Il tutto era determinato e condizionato dal successo planetario dei Weather Report che, in quel periodo nell’immaginario giovanile, avevano superato persino i Beatles e i Pink Floyd. Fenomeni di ostilità hanno riguardato più che altro il free-jazz, ma negli anni Sessanta. Gli anni Settanta che io, per motivi anagrafici, ricordo di più sono stati anni di apertura e di commistione, ma anche di grandi confusione.

D. In che modo oggi possiamo uscire dalle sacche di certo provincialismo ancora latente e talvolta palese o persino ostentato?

R. Il vero problema è che non esiste un jazz italiano, ma solo un jazz suonato in Italia. Ho sempre cercato di sottolineare questa live differenza, che non è una semplice sfumatura linguistica. Tutto ciò nel nostro paese è più vero che in altre parti d’Europa o dovunque si produca musica jazz derivativa rispetto agli assunti basilari di tipo africano-americano. In molti si sforzano di parlare di jazz mediterraneo che non significa nulla ed aggrava una situazione, già di per sé precaria. Per intenderci, quanto affermato, non significa che in Italia non vi siano validi compositori ed esecutori: oggi a livello di post-bop, abbiamo alcuni tra i migliori jazzisti europei, anche se non riconosciuti specie dalla stampa nazionale che è l’unico fenomeno “provincialista” presente in Italia. Il vero provincialismo, in ambito jazzistico, qui da noi si chiama esterofilia congenita, che se applicata ai grandi del passato non fa una piega. Oggi, però, è tutto molto livellato e nel nostro paese esistono musicisti con contro fiocchi: ahimè, in un terra dove il jazz è confinato, emarginato ed ignorato dai media, i quali si calano le braghe mettendosi a novanta gradi solo quando arriva il guitto di turno dall’estero.