...non c’è alcuna indicazione, in nessuna delle sue registrazioni, che egli abbia tentato di allontanarsi dal ritmo pulsato. A mio avviso, i batteristi free non rappresentano un un ulteriore sviluppo dello stile di Jones, ma piuttosto un allontanamento radicale da esso… (Frank Kofsky )

// di Francesco Cataldo Verrina //

Parlando di Elvin Jones, mi preme fare una piccola premessa. I dischi dei contrabbassisti e dei batteristi, anche quelli dai nomi storicamente rilevanti vengono considerati marginali, ossia a margine della storia del jazz moderno, che è invece raccontata più dal punto di vista dei solisti di prima linea: sassofonisti, trombettisti e pianisti, eccezione fatta per Charles Mingus, Art Blakey ed in parte Max Roach, i quali nascono e si affermano prevalentemente come band-leader.

Elvin Jones, pur essendo considerato uno dei più iconici batteristi jazz di tutte le epoche, viene sempre ricordato come un sideman al servizio di John Coltrane del periodo aureo, dal 1960 al 1966. Tutto ciò non rappresenta una demitutio capitis per la storia personale di Jones: molti al suo posto avrebbero voluto trovarsi al fianco di Trane, mentre lo storico quartetto forgiava a ferro e fuoco alcune delle pagine più emozionanti della storia del post-bop, fissandole ad imperitura memoria negli annali della musica del Novecento, ma esiste anche un’interessante produzione di Jones come leader a sé stante, sovente ignorata dalla cronache jazzistiche. Per contro c’è uno studio comparato che analizza l’importanza della tecnica di Jones nel ciclo evolutivo del drumming jazz.

Elvin Jones ha dato alcuni contributi basilari allo sviluppo della batteria che continuano ad avere un impatto sull’esecuzione jazzistica, influenzando molte generazioni di succedanei. Purtroppo, la letteratura esistente, spesso, non ha rilevato l’essenza delle intuizioni di Jones, tranne qualche eccezione in cui gli studiosi hanno tentato di eliminare parte della cappa di reticenze che circonda il batterista evidenziandone le innovazioni apportate. Fondamentale risulta l’espansione della funzione di tempo da lui introdotto attraverso un sistema di fraseggio dei piatti, integrando l’azione di tutti e quattro gli arti al fine di esprimere e costruire un’idea ritmica, in grado di ampliare il ruolo del batterista in un contesto d’insieme.

Figura cardine della storia del bop, Elvin Jones, all’inizio degli anni Sessanta, apportò cambiamenti radicali nell’uso della batteria che continuano ad avere profonde implicazioni in vari campi dello studio e dell’esecuzione in ambito jazz. Come già accennato, alcuni studiosi ne hanno riconosciuto l’importanza, anche se con differenti punti vista. Per esempio, sia Ollie Wilson che Ed Pias considerano Jones un determinante anello di congiunzione tra il precedente bop ed il successivo free. Dal canto suo, Berliner designa Jones come leader della «scuola poliritmica» , mentre Frank Kofsky lo considera un rivoluzionario socio-musicale: «Le idee di Elvin sono state cruciali per il successo della rivoluzione jazzistica post-bellica, specie nella sua fase ascendente». In realtà Frank Kofsky non era d’accordo sul fatto che Jones fosse un elemento di raccordo tra bop e free: «È pericoloso sostenere che lo stile di Jones sia uno sviluppo intermedio che in qualche modo colleghi il drumming jazz basato sulle pulsazioni a quello libero. Sebbene lo stile di Jones possa essere considerato ricco di sfumature, non c’è alcuna indicazione, in nessuna delle sue registrazioni, che egli abbia tentato di allontanarsi dal ritmo pulsato. A mio avviso, i batteristi free non rappresentano un un ulteriore sviluppo dello stile di Jones, ma piuttosto un allontanamento radicale da esso. Certamente ci sono stati batteristi, in particolare Jack DeJohnette che hanno ampliato l’approccio di Jones».

Mentre negli ensemble tradizionali il batterista fungeva da appoggio avendo la funzione specifica di dare e tenere il tempo stesso all’orchestra, limitando così le sue possibilità espressive, nel free più svincolato e meno costrittivo, la parola libero assume particolare rilevanza proprio in funzione del suo carattere temporale. Il batterista è affrancato dall’esigenza di dover dare e tenere il tempo, ma ha l’opportinità di costruire progressioni ritmiche senza preoccuparsi del battito metronometrico, dell’accelerare o rallentare un tempo fissato da un un band-leader. Questa nuova possibilità, ossia l’essere parificato agli altri strumentisti e legittimato anche sotto il profilo solistico, accrescono le possibilità del batterista e ne elevano la figura. Nel free jazz vedremo spesso i batteristi ampliare enormemente la loro strumentazione ed il loro campo d’azione in cerca di nuove sonorità e, di rimando, sovente anche gli altri strumentisti diventano percussionisti. A differenza di quanto accadeva in passato, in ambito free saranno molte le formazione capitanate da batteristi. Non a caso, in alcuni momenti della sua carriera, le regole d’ingaggio scelte da Elvin Jones saranno molto vicine alle dinamiche del free-jazz.

Alcune pubblicazioni di Kofsky su Elvin Jones e John Coltrane erano alimentate dell’idea che la loro musica fosse uno snodo importante per la «rivoluzione jazzistica» degli anni Sessanta, quindi da considerare parte integrante del «nazionalismo nero». Come ho ampiamente spiegato nel mio saggio, «John Coltrane: Il passo del Gigante», in varie interviste rilasciate a Kofsky, però, né Coltrane e né Jones apprezzavano il fatto che gli venisse chiesto di associare pubblicamente le loro produzioni a certi temi politici legati a Malcom-X e alle lotte razziali. In particolare, Trane si mostra sempre piuttosto evasivo, spostando l’asse del discorso su talune problematiche tecniche, compositive e strumentali. Al netto di ogni congettura, Elvin Ray Jones rimane uno dei batteristi più rappresentativi dell’era bop-hard-post-bop. Trasferitosi a New York nel 1955, Jones lavorò come sideman per Charles Mingus, Teddy Charles, Bud Powell e Miles Davis. Dal 1960 al 1966 – come già detto – fu un ingranaggio fondamentale del leggendario quartetto di John Coltrane; terminata l’avventura con il sassofonista, a partire dal 1977, cominciò a guidare diversi piccoli combo, alcuni sotto il nome di The Elvin Jones Jazz Machine.

I suoi album per Impulse e Blue Note, in cui lasciava sempre ampio spazio ai suoi collaboratori, si muovevano a cavallo tra influenze avant-garde e post-bop, accreditando la tesi di Ollie Wilson e di Ed Pias che consideravano Jones come una sorta di hub di collegamento tra il bop ed il free. Negli Settanta, pur rimanendo fedele ad un jazz sostanzialmente acustico, il batterista iniziò a subire il fascino della fusion e del jazz-funk, arricchendo il suo già variegato ed eclettico bagaglio sonoro di influenze latine e brasiliane. L’album «New Agenda» del 1975 non sfugge a questa regola. Partendo dalla tradizione, Jones e soci riescono a cogliere appieno lo zeitgeist, ossia lo spirito dei tempi. Come molte delle produzioni degli anni Settanta, l’album è una specie di porto di mare, caratterizzato da un andirivieni di collaborazioni. «New Agenda» fu la sua prima uscita per la Vanguard Records. Jones si avvalse di una sezione di ance piuttosto variegata, dove intorno al pilastro centrale, Steve Grossman, giovanissimo e coltraniano, ruotarono in diversi brani Azar Lawrence, Joe Farrell e Frank Foster. E, come se la potenza del suo kit non bastasse, il batterista coinvolse a turno tre percussionisti: Candido Camero, Guillermo Franco e Frank Ippolito. La risultante non fu il caos percussivo e roboante che ci si poteva aspettare, piuttosto, Jones lavorò con intelligenza al fine di creare una vera un’unità coesa e sinergica, operando delicatamente sui piatti per completare le trame percussive, ma soprattutto lasciando i collaboratori davvero liberi di esprimersi, specie nella conclusiva «Agenda».

«New Agenda» si sostanzia attraverso una modalità che rappresenta un’estensione del materiale che Jones aveva prodotto per la Blue Note all’inizio degli anni ’70 e di cui conserva il feeling ed il groove. In particolare, le linee taglienti di Steve Grossman, sax tenore, soprano e flauto, sono bilanciate dal basso pastoso e rotondo di David Williams e dall’eccellente chitarra di Roland Prince che, in memoria del miglior Grant Green, distribuisce ricercati elementi cromatici lungo tutto il percorso, mentre gli ospiti a rotazione garantiscono sostegno ed abbellimento formale e sostanziale, in particolare le percussioni di Candido Camero (tracce 5 e 7). Perfino il temuto pianoforte elettrico di Kenny Barron, (traccia 1), croce e delizia dei puristi, riesce a magnificare l’iniziale costrutto soul-jazzer di «Someone’s Rocking My Jazzboat», un escursione metropolitana dai tratti somatici marcatamente funkified; quindi la tastiera passa nelle mani di Gene Perla nell’intermedia «Stefanie», splendida ballata mid-range dal mood coltraniano firmata dal produttore Ed Bland, caratterizzata da un avvolgente afflato melodico, tanto diventare un moderno standard, successivamente ripreso da James Moody, il quale ne fece un cavallo di battaglia.

I brani pianoless sono ancorati armonicamente dal chitarrista Roland Prince, il quale mostra uno stile alquanto sobrio in alcune composizioni come «Haresah» e «Naima» di Coltrane, rielaborata in maniera struggente e dilatata dal sax di Grossman, viene calata in un’ambientazione vagamente fusion proprio dalla chitarra che funge da perfetta guida armonica. In altre partiture il chitarrista ricalca quasi in maniera millimetrica la tonalità del piano Rhodes di Barron e Perla. La B-side si apre con «Anti-Calypso», scritta da Roland Prince, forse un tributo ironico a Sonny Rollins, dove la chitarra diventa la spina dorsale del costrutto ritmico-armonico, mentre le ance avanzano compatte con un fare bandistico e trionfale, sostenute da una ridda di percussioni afro-caraibiche: l’idea che «Anti-Calypso» suggerisce è quella di una fiesta in piazza dove i musicanti chiamano a raccolta gente di ogni contrada. «My Lover» è una crepuscolare ballata inizialmente sussurrata dalla chitarra e locupletata in seconda battuta dal sax con lacerante pathos, dopo uno strappo percussivo che funge da spartiacque. «Agenda», il miglior componimento dell’album che da solo vale il prezzo della corsa, suggella il concept di Jones con un parenchima sonoro multitematico e multietnico che anticipa di molto il concetto di world music, camminando a pie’ sospinto tra Africa e Brasile, tra Europa ed America: le splendide percussioni di Candido e Frank Ippolito s’incrocia con il kit di Elvin sviluppando un groove itinerante sine die e senza soluzione di continuità, su cui il flauto di Steve Grossman viaggia alimentando una lussureggiante ed esotica melodia, trovando spesso la complicità del sax di Joe Farrell.

«New Agenda» non è un album rivoluzionario, ma è rappresentativo del tipico spirito duale di Elvin Jones, da sempre diviso tra bop e tentazioni avanguardistiche; soprattutto per inventiva, compattezza ed capacità esecutive del line-up, questo disco, sfuggito al controllo dei radar, non ha nulla da invidiare a certe produzioni del decennio precedente.

Elvin Jones