//di Vincenzo Staiano//

In un qualsiasi dizionario dei sinonimi la parola ‘timoniere’ viene associata ai seguenti termini: (in senso nautico) a pilota, nocchiero, guida e (in senso figurato) a capo, leader e conduttore. «Timoniere» è il termine che il celebre scrittore e critico statunitense Colin Fleming ha usato per racchiudere in una sola parola la figura del giovane contrabbassista italo-americano Scott LaFaro, scomparso a soli 25 anni. L’ha fatto in un articolo intitolato «L’altro Scott LaFaro» pubblicato dalla rivista americana Jazz Times nel mese di luglio del 2021.

Fleming è l’autore di otto libri e di una miriade di altri mezzi narrativi ed è anche un esperto e uno scrittore di film, di letteratura, di musica, di arte e di sport. Di rilievo il suo ruolo di opinionista di argomenti di attualità e di eventi culturali per i più importanti giornali e riviste degli Stati Uniti. Tra i tanti, collabora spesso con il magazine Jazz Times. Non c’è dubbio che si tratti di una figura editoriale senza pari o equivalenti in Italia. Pertanto, la sua attenzione nei confronti di Scott conferisce un grande valore aggiunto alla figura del giovane contrabbassista, perché non proviene da uno specialista del settore ma da un fuoriclasse del mondo editoriale statunitense. Nel suo articolo Fleming conferma di fatto l’opinione di chi ha sempre affermato che il giovane LaFaro non era un sideman, ma un vero e proprio leader, un capo, un conduttore.

Fleming è stato uno dei pochi che sono tornati a occuparsi di lui 13 anni dopo l’uscita della biografia scritta dalla sorella Helene LaFaro Fernandez che ha raccontato la sua breve vita in un volume stampato nel 2009 dalla Texas University Press. Negli USA, infatti, il giovane contrabbassista ha avuto un’importante e diffusa attenzione, solo dopo l’uscita del libro di Helene. Poca attenzione in Italia, invece, dove il volume non è mai stato tradotto o pubblicizzato, a parte un omaggio al giovane contrabbassista promosso dal Festival Internazionale del Jazz Rumori Mediterranei nel 2011 e la pubblicazione di un inserto centrato sulla biografia della sorella da parte di una rivista specializzata diretta d Filippo Bianchi, lo stesso anno. L’attenzione di Rumori Mediterranei è stata generata dalla scoperta delle sue origini calabresi, poiché i nonni paterni erano partiti da un paesino vicino alla località in cui si svolge il Festival, mentre la decisione del direttore della rivista non era estranea alla scelta programmatica fatta dalla rassegna roccellese. Molto importante il contributo di Gian Maria Maletto nel package di quel numero del magazine. Dopo quei due eventi citati, però, è calato il silenzio sul giovane contrabbassista italo-americano. Solo qualche citazione in occasione di produzioni discografiche legate alla sua storia.

Nel 2021 è arrivato il mio libro «Solid. Quel diavolo di Scott LaFaro» (Arcana, 2021) e non a caso il precedente «silenzio» ha spinto il critico Enzo Fugaldi ad affermare che: «…In Italia pochissimo era stato scritto [su LaFaro] e pertanto il libro di Vincenzo Staiano va a colmare un vuoto informativo piuttosto consistente». Si tratta di un commento contenuto in una recensione del mio libro «Solid» fatta dal critico siciliano e pubblicata dal portale JazzItalia.net. All’epoca non ho potuto usare l’articolo di Fleming perché è uscito in contemporanea con la stampa del mio lavoro da parte di Arcana, ma importanti stralci della sua analisi sono stati inseriti nella versione inglese del mio libro intitolato «Solid. Life and Death of a Jazz Genius/SCOTT LAFARO» da poco pubblicato. A beneficio di chi ha letto la versione italiana, ritengo opportuno precisare che quella inglese contiene degli arricchimenti, delle foto, una struttura diversa rispetto all’edizione italiana e, come valore aggiunto, contiene alcuni importanti commenti tratti proprio dall’articolo di Fleming. Lo scrittore e critico americano consegna ai lettori americani un LaFaro carismatico, con tutti i crismi del leader, anche se non ha mai avuto un suo gruppo: «…un’eredità è un riflesso di cosa sarebbe potuto essere, basato su un piccolo ammontare di cosa è stato. Tale è il lascito del contrabbassista Scott LaFaro, sebbene io suggerirei che ciò che è stato è stato più di quanto noi spesso pensiamo».

Fleming parte dall’assunto che tutti sono concentrati sugli album del Village Vanguard per valutare la statura di Scott e solo pochi ascoltano «Portrait in jazz», «Explorations» e molte produzioni che hanno avuto Scott come protagonista, mentre, invece, andrebbe fatto. Manifesta anche la sua profonda convinzione che Scott è stato un genio del jazz e che l’unico altro contrabbassista capace di raggiungere il suo stesso livello è stato Jimmy Blanton. Esemplare e di grande fascino la sua lettura e descrizione del ruolo avuto da Scott nelle registrazioni del Village Vanguard: «… la dinamica di Evans gli ha fornito un ambiente perfetto. Evans era un pianista articolato, un diffusore melodico, un signore della filigrana piuttosto che un re del ritmo. Motian operava allo stesso modo; se non altro, era ancora più pittore del leader. Rimanevano l’aria e lo spazio, e il tempo, che potevano essere riempiti e modellati……LaFaro colse l’occasione e fu il timoniere del trio. Nel suo modo di suonare si può sentire quanto Evans sia felice di avere questo timoniere in fondo alla barca: credo che lo aiutasse a vedere meglio davanti……».

Sono documentati l’entusiasmo e la grande stima che il trombettista Booker Little aveva per Scott e Fleming si è occupato anche di lui. È scomparso giovanissimo, solo un paio di mesi dopo il contrabbassista italo-americano. I due non solo hanno condiviso un destino atroce e una morte precoce, ma anche una precoce tendenza alla leadership. Little, infatti, aveva alle spalle già alcune esperienze da co-leader con grandi figure del jazz contemporaneo quando ha chiamato Scott a far parte della registrazione dell’album «Booker Little». La superba analisi di Fleming va oltre gli entusiastici commenti su LaFaro fatti da Booker Little stesso in più occasioni e investe anche lo stesso trombettista: «…I sei numeri con LaFaro che compongono l’album Booker Little sono una masterclass di contrabbasso postbop. Dovrete regolare le vostre orecchie, ma si allineeranno rapidamente. Pensiamo a LaFaro come a un bassista jazz con inclinazioni verso la musica classica; è lo slancio, credo. È così dannatamente elegante. La grinta non è un punto fermo di LaFaro, ma questo non significa che non lo sia la struttura. La consistenza, tuttavia, è il dorso della mano, la forma della carezza, piuttosto che il palmo ruvido. È la parte superiore del lenzuolo, invece della ruvidità della coperta invernale. Little deve aver amato i contributi di LaFaro, perché lui stesso era uno di quei musicisti a cavallo tra le due sfere: né un bopper né un hard-bopper né un vero e proprio New Thing. Era una cosa sua. Come lo era, del resto, LaFaro».

La passione di Scott LaFaro per la musica classica e contemporanea è stata messa in chiaro dallo stesso musicista nell’unica intervista rilasciata nella sua vita e concessa al celebre critico Martin Williams: «Introducing Scott LaFaro», pubblicato dalla rivista Jazz Review di cui lo stesso Williams era direttore. Scott è arrivato perfino ad affermare che lui e Bill Evans non si sentivano dei jazzisti e che quanto accadeva nel mondo della musica contemporanea li interessava più del jazz. Non può stupire quindi la sua partecipazione a un progetto di «Third stream» con John Lewis e Gunther Schuller. Si è trattato di un lavoro articolato che si è sviluppato in più fasi e al quale Scott ha partecipato come ospite. Il primo step ha avuto luogo al Circle in the Square di New York nel mese di maggio 1960. E’ stato uno dei contrabbassisti del progetto «Jazz Profiles» basato su composizioni di Gunther Schuller. Il secondo step ha avuto luogo al Monterey Jazz Festival il 25 settembre del 1960, sempre con due composizioni di Gunther Schuller intitolate «Abstraction and conversation».

Il terzo, portato a termine lo stesso anno, è stata così descritto da Fleming: «Il 19 e 20 dicembre [Scott] ha partecipato alle sessioni di Jazz Abstractions di John Lewis, Gunther Schuller e Jim Hall, con gli amici Bill Evans ed Eric Dolphy. Un ambiente naturale per un musicista multiecosistema come LaFaro, il bassista ideale per un progetto di questa natura, che è jazz, classico, pittorico, aperto e dimostrativo. È il basso di LaFaro che fa andare avanti questa cosa, come va avanti. E come va? La musica di Jazz Abstractions procede come una serie di sfumature, che tendono a essere chiamate «varianti» sull’LP finito. Un disco come questo avrebbe potuto facilmente diventare solo un disco «d’atmosfera»: il suono come pittura sfocata e lanosa, in cui l’esperimento diventa fine a se stesso, il gesto, l’azzardo, è tutto. Ma LaFaro fa pulsare la musica, ne fornisce il battito e il flusso. Questo lavoro di Third Stream ha il jazz come principale affluente e deve ringraziare LaFaro. Evans e Dolphy non compaiono in un paio di brani, mentre LaFaro è la costante. La mia sensazione è sempre stata che la musica di questo spazio slipstream abbia bisogno di lui, bussa alla sua porta e chiede al timoniere di uscire di nuovo».

Era passata solo una notte e il «timoniere» veniva convocato di nuovo negli studi dell’A&R Recording Incorporated di New York dove era stato registrato l’album «Jazz Abstractions» di John Lewis e Gunther Schuller. Nello studio di registrazione c’era anche Ornette Coleman, molto legato ai due, poiché sono erano stati loro a sponsorizzare il suo ingaggio al Five Spot Cafè di New York, mitico santuario del jazz di quel periodo. Il 21 dicembre 1960 era stato proprio Coleman a convocare LaFaro per registrare quella specie di bomba atomica chiamata «Free Jazz». Erano due le sezioni e si registrava su due canali. Su quello di sinistra c’erano Eric Dolphy al clarinetto basso, Freddie Hubbard alla tromba, Charlie Haden al contrabbasso ed Ed Blackwell alla batteria; su quello di destra Ornette Coleman al sax contralto, Don Cherry alla tromba tascabile, Scott LaFaro al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria.

Superba la recensione di Fleming che coglie l’occasione anche per porre fine a una diatriba avviata da Charlie Haden (aveva definito Scott un contrabbassista tradizionale): «Non è una critica a Charlie Haden – anch’egli formidabile pioniere – dire che se lui è un bassista, LaFaro è un’altra cosa, per usare l’espressione di Coleman. Un bassista post-bassista, forse. Un intagliatore di suoni. Torno all’idea del timoniere, perché LaFaro suona sempre come se fosse in rotta verso una destinazione vitale, e sta aiutando a portarci gli altri musicisti e, naturalmente, quelli di noi che ascoltano. Questo è il suo marchio di intimità: la sensazione del momento rubato. Ma è un momento di cui siamo destinati a far parte, che ci circonda e che è per noi. È una cosa da basso? È una questione di jazz?…. Si tende ad associarlo a predilezioni classiche, ma qui è in una delle sessioni d’avanguardia che scuotono lo Zeitgeist, e cavolo, guida il suono. In un certo senso: Scott LaFaro era all’altezza della situazione».