// di Roberto Biasco //

C’è un grande trombettista in giro, ed è in grado di suonare differente da tutti gli altri”

(Miles Davis su Woody Shaw)

Roma, Teatro Olimpico, autunno del 1986. Quest’uomo di colore, magro ed elegante, dall’aspetto ancora giovanile, viene accompagnato sul palco a piccoli passi, sostenuto per il braccio sinistro, con la mano destra regge la tromba, il volto è incorniciato da un paio di occhiali da vista dallo spessore inconsueto. Un attimo di sospensione e la band attacca “Woody Woodpecker”, l’allegra sigla del cartone animato che guardavamo da bambini. Il jazz è anche, e soprattutto, questo : fare le cose serie sorridendo e con un pizzico di ironia. Woody Shaw l’aria molto seria l’ha sempre avuta. Complici anche le foto di copertina degli anni settanta, nelle quali l’artista doveva mostrarsi sempre serio e pensieroso, con l’aria vagamente ostile del rivoluzionario.

Le rare immagini in cui viene sorpreso sorridente fanno invece sospettare un carattere mite e sereno. Ma rivoluzionario, nella musica, lo è stato veramente. Woody Shaw è stato l’ultimo anello di una fulgida tradizione, marchiata a fuoco dalla militanza in quella “scuola di alta specializzazione” che furono i Jazz Messengers di Art Blakey. Una tradizione di trombettisti superlativi, il cui elenco – solo parziale – compendia più di metà della storia del jazz : Clifford Brown, Kenny Dorham, Lee Morgan, Freddie Hubbard e appunto Woody Shaw. E ancora dopo di lui Wynton Marsalis e Terence Blanchard che oggi calcano le scene da riveriti maestri.

Siamo quindi perfettamente al centro della corrente principale della musica afroamericana. Woody, classe 1944, uscì alla ribalta già negli anni sessanta, collaborando con artisti di prima grandezza, come Eric Dolphy o Larry Young, e militando nelle principali formazioni dell’hard bop, il Quintetto di Horace Silver prima ed i Jazz Messengers all’inizio degli anni settanta. Intraprese poi una carriera solista improntata al rigore ed alla qualità. Riuscì a mettere a punto uno stile proprio, ricollegandosi all’improvvisazione modale perfezionata da Miles Davis, per poi trasferire sulla tromba l’approccio di John Coltrane, elaborando una sintesi più avanzata della lezione dei due giganti. Un esperimento portato avanti, sulla stessa lunghezza d’onda, ma con accenti forse ancora più radicali, dal contemporaneo trombettista Charles Tolliver.

I dischi incisi per la Columbia alla fine degli anni settanta“Steppin Stone” o “Rosewood” per citare i titoli più noti – mostrano un artista maturo ed autorevole, un maestro dell’improvvisazione modale. La sua tromba aveva un timbro perfettamente riconoscibile, arioso e leggero, ma tutt’altro che esile, perfettamente in grado di esprimere tutte le sfumature dal lirismo più sottile al fuoco più incandescente. Non sono assolutamente da meno le registrazioni effettuate per l’etichetta Muse nello stesso decennio, con particolare riferimento ad album quali “Cassandranite” inciso nel 1965 ma pubblicato solo nel 1983, e “The Moontrane” del 1974. In realtà tutte le registrazioni effettuate in studio sulle etichette Contemporary (tra cui il superbo Blackstone Legacy del 1970), Muse e Columbia costituiscono un “corpus” unico, assai omogeneo e di altissimo profilo, nel quale risulta difficile estrapolare i singoli lavori. Purtroppo le indispensabili raccolte The Complete Columbia Albums e The Complete Muse Recordings su Mosaic risultano ormai da tempo fuori catalogo. Vanno poi ricordati gli innumerevoli album dal vivo pubblicati sia in vita che postumi, per varie etichette: Elektra Musician, RED Records, Highnote, Elemental etc. tutti meritevoli della massima attenzione.

Woody è stato, come tutti i grandi, anche uno scopritore di talenti ed un maestro in senso letterale. Nei suoi gruppi si sono avvicendati dei giovani che hanno poi “fatto carriera” come il pianista Mulgrew Miller, il trombonista Steve Turre ed il batterista Victor Lewis. Da ricordare anche i magnifici dischi incisi negli anni ottanta insieme all’amico fraterno Freddie Hubbard (“Double Take” e “The Eternal Triangle”) e poi riuniti in un doppio album della Blue Note. Con il passare degli anni i problemi alla vista peggiorarono drammaticamente. Woody divenne semicieco. Una sera d’inverno del 1989, dopo una serata da spettatore al Village Vanguard, invece di farsi dare il solito passaggio dagli amici musicisti, non si sa bene perché, decise di tornare a casa da solo. Tragicamente non arrivò mai a destinazione. Finì inspiegabilmente tra i binari della metropolitana, e morì mesi dopo in ospedale a causa delle complicazioni dovute all’incidente.

Una breve riflessione in merito di Paolo Fresu: quale è stata l’influenza di Woody Shaw sui trombettisti della tua generazione?

Bisogna purtroppo ammettere che l’influenza di Woody Shaw sulle nuove generazioni è stata inferiore ai grandi meriti di questo musicista, peraltro dalla vita relativamente breve e sfortunata. Shaw aveva un approccio “verticale” all’improvvisazione sulla tromba, molto originale ed atipico, derivato più dall’influenza di grandi sassofonisti come John Coltrane, che da quella di altri trombettisti. Pertanto il suo approccio è rimasto un po’ schiacciato tra quelle che, tanto per semplificare, sono le due grandi “scuole” della tromba jazz : quella “lirico-melodica” di Chet Baker e Miles Davis da una parte, e quella tipicamente “hard bop” di Clifford Brown e Freddie Hubbard dall’altra. Assolutamente meritoria qualsiasi iniziativa finalizzata a voler riportare l’attenzione su un grande musicista la cui fama ha rischiato di rimanere circoscritta ai soli “addetti ai lavori”. (Articolo parzialmente pubblicato sul settimanale LEFT del 26 settembre 2008).