// di Kater Pink //
«Il jazz e le arti», «Il jazz e le idee», «Il jazz e le cose», «Il jazz e gli animi», «Il jazz e i mondi», «Il jazz e l’Europa» sono i sei libri finora da lei pubblicati da Arcana negli ultimi cinque anni costituire a una sorta di ‘Enciclopedia tematica’ della musica jazz. Come è nata quest’iniziativa?
Quasi per caso, quando Arcana mi propose di ristampa, aggiornandolo, il mio fortunato Il jazz-film, uscito circa vent’anni prima con un altro editore. Poi, sempre Arcana, mi chiese se avevo voglia di scrivere un altro libro sul genere, ma dato che un’altra arte specifica (ad esempio la pittura o il teatro) non possedevo materiali e competenze di livello profondissimo, proposi un testo più divulgativo che comprendesse tutte (o quasi) le arti figurative e performative (rifacendomi a saggi e articoli che avevo già pubblicato su riviste) e così nasce qui «Il jazz e le arti» e da lì è stato tutto in discesa…
Le va di analizzare in dettagli le principali caratteristiche di ogni singolo volume?
Certamente, ma preferirei farlo in ordine cronologico, dal primo libro uscito fino a quello più recente.
Parliamo quindi de «Il jazz e le arti».
Direi anzitutto ce il jazz da sempre intrattiene rapporti, stabili e duraturi, con ogni forma di espressione artistica e comunicativa, dagli ambiti strettamente musicali (il rock, il folk, la classica, la canzone) ai territori fascinosi delle arti figurative (pittura, fumetto, grafica, architettura, fotografia, persino urbanistica), dalla parola scritta poesia, romanzo, noir, anche autobiografia ai linguaggi audiovisivi film, documentario, tv, DVD, fino a inventare nuovi seducenti esempi di performance interdisciplinari (action painting e jazz poetry, soundie e musicazione), interessando altresì il costume sociale (moda e modernariato) e ovviamente i precipui ambiti tecnologici (live e studio album, soundtrack. E quindi c’era bisogno di parlare di queste arti vedendo come il jazz si è collegato a esse.
Ma tra arti e jazz chi è maggiormente avvantaggiato?
Il jazz da un lato influenza le arti visive, ma, da un altro lato, ne viene a sua volta positivamente sedotto in un turbinio di esperienze che in questo libro ho voluto raccontare, in maniera didascalica o divulgativa, come dicevo, trattando ben venti arti diverse e raccontando in fondo le passioni di tanti artisti che, pur senza fare musica, io considero i jazzmen dell’arte figurativa o performativa a tutti gli effetti.
Passiamo al secondo «Il jazz e le idee», che inizia con una citazione del grande scrittore Italiano Calvino.
È una citazione dalle sue Lezioni americane quando afferma: ‘Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili’. Questo concetto può essere tranquillamente applicato al sound di Miles, Parker, Trane e compagni, sostituendo ‘jazz’ alla parola ‘vita’. Dunque in questo libro ho trattato il jazz quale combinatoria di esperienze, informazioni, letture, immaginazioni; o in altro parole ho visto ìil jazz soprattutto come enciclopedia, biblioteca, inventario di oggetti, campionario di stili da rimescolare e riordinare in continuazione.
In tal senso il jazz può riguardare di tutto?
Credo di sì, perché è fatto – nell’immaginario, nella fruizione, nel rapporto con il mondo – di oggetti/soggetti in apparenza estranei e comuni, vicini e lontani, musicali e non. Nel libro perciò tento di vedere il jazz sotto differenti sfaccettature (le ‘ idee’ appunto), scovandolo negli anfratti delle scienze umane, di temi specificamente discografici, del mondo della comunicazione, dei nuclei domestici, delle questioni morali, dell’identità nazionale, di altre sonorità, di riti quotidiani, del calendario, delle ‘manie’, delle istituzioni, della stessa musica.
Voleva lanciare, con questo libro, un messaggio o regalare nuove ‘idee’ ai lettori o ai musicisti?
Orse indirettamente: ma le mie restano solo riflessioni che vorrebbero contribuire a un’ulteriore conoscenza del cosiddetto ‘mondo jazz’, tra anticonformismo e multidisciplinarietà; e lo faccio in tono colloquiale e talvolta anche un po’ sbarazzino, pur nell’estrema serietà degli assunti pratici/teorici. E spesso insisto perché il jazz ha ancora bisogno, dopo oltre un secolo di Storia, di mettere in gioco le idee, che dovranno essere sempre nuove bellissime idee.
Da «Il jazz e le idee» al terzo «Il jazz e le cose»,sembra esserci una sorta di continuità a livello tematico.
Vero, perché doveva essere un unico libro, poi sarebbe risultato troppo voluminoso e quindi ho suddiviso in due gli argomenti, riservandomi per questo sequel il riferimento nel titolo al fondamentale Les mots et les choses (Le parole e le cose) edito nel 1965 da Michel Foucault che inizia con la celeberrima analisi del quadro Las Meñinas di Velasquez. Il libro, sostanzialmente filosofico, dice grosso modo che ogni periodo storico possiede alcune condizioni sottese di verità che fondano ciò che risulta accettabile, come ad esempio, il discorso scientifico, anche se per Foucalut, tali condizioni di discorso mutano nel tempo.
Quindi anche il jazz come qualcosa con le condizioni di verità che mutano nel tempo?
Sì, ma anche le ‘cose’, nel senso di storie cangianti e al contempo ricorrenti, le ‘cose’ dei luoghi, dei fatti, della gente che suona, ama, vive il jazz portandolo sulla sommità dell’intero ‘universo suono’, perché improvvisare o swingare risulta ormai una parte fondamentale della nostra vita tra musica, cronaca, realtà, perché insomma il jazz è anche il perno della cultura, dell’arte, dello spettacolo, del trascendente, dell’industria, della politica, del quotidiano, della società dei secoli XX e XXI.
Le cose del jazz appaiono quindi come le arti e le idee?
Le ‘cose’ a mio avviso fondanti del jazz medesimo risultano in questo libro via via diverse, ovvero importanti, decisive, utopistiche, tenere, rabbiose, furenti, sensuali , fino a spostare il discorso su tutto ciò che effettivamente il jazz richiama, quando tutti noi lo ascoltiamo, suoniamo, viviamo. Il jazz come ‘cose’ di una musica vicina o lontana, nonché di luoghi e di persone; ecco ancora le ‘cose’ come una cronaca e una realtà che sembrano radunarsi attorno al tempo, agli eventi ai luoghi, ai segni, ai simboli, al caso.
Con il quarto «Il jazz e gli animi» si cambia prospettiva tematica e si acquista forse coscienza di lavorare appunto a una specie di enciclopedia in progress.
Mi stavo rendendo conto, mentre scrivo, che continuava quella che era ormai definibile come ‘enciclopedia tematica (o illustrata) in divenire: dopo «Il jazz-film» apripista, che con il senno di poi avrei dovuto chiamare «Il jazz e i film» o «Il jazz e il cinema», e dopo le arti, le idee e le cose, ecco un testo sullo spirito (dunque animo) di questa musica attraverso i personaggi che, lungo un secolo, caratterizzano un sound unico al mondo. I tanti animi del jazz diventano via via, nel corso della Storia, animo blues, animo hot, animo swing, bebop, cool, hard bop, soul, free, trasformandosi in autentici linguaggi musicali autonomi.
Ma non sono solo ‘animi’ che riguardano gli stili principali.
Gli animi del jazz si legano visceralmente agli strumenti musicali (sax, tromba, pianoforte chitarra, contrabbasso, batteria, per quanto riguarda la jazz band ‘classica’). Oppure sono animi cosmopoliti e multietnici (afroamerican, afrobrish, european, latin) che dagli Stati Uniti partono ‘in missione’ per continenti, tornando culturalmente felici e arricchiti. Animi vogliosi di confrontarsi con altri suoni (ethno, pop, rap, rock,entertainer), intrecciando fusioni, contaminazioni, ibridazioni con molte esperienze giovanili. Animi trasversali a epoche diverse in un cammino spaziotemporale tanto audace quanto insidioso (modern, contemporary, future-retro). Animi in rapporto spesso delicato con lo show business (donna, Poll Winners, in e out). Animi che vanno oltre il fare, osservando e ascoltando il jazz dall’altra parte della barricata (storico, jazzofilo, critico, giovane, ascolto).
Si tratta in questo caso di un’operazione più storica delle precedenti?
Solo in parte, tenendo conto che non sono tanti piccoli bignamini sul bebop o sul free, sul contrabbasso o sull’afrobritish, ma capitoli – come sempre quasi tutti basati sulla rielaborazione di miei scritti precedenti – dove cerco di offrire nuove chiavi interpretative, partendo da personali intuizioni (suffragata dall’obiettività informativa). E qui ho voluto insomma raccontare i tanti animi sensibili, giovani, aperti, curiosi, in grado di cogliere la novità e la bellezza e rielaborarle in melodie e ritmi che da sempre muovono focosi sentimenti, qui discussi e raccontati coinvolgendo non solo persone, ma anche luoghi, canzoni, dischi, eventi, amenità, imprevisti.
Passando al quinto libro «Il jazz e i mondi», si può notare un’ennesima nuova sfida nei confronti della storia del jazz, affrontata globalmente, nel senso proprio dell’odierna globalizzazione mondiale.
Io parto dalla scoperta o dalla constatazione che, fin da subito, il jazz si espande dagli Stati Uniti al Mondo intero, diventando in poco tempo world music o “musica globale” per eccellenza, salutata in ogni Paese – dapprima nord, centro, sud americano, quindi africano, asiatico, oceanico – quale eccitante novità in grado di soddisfare i gusti di pubblici diversi, grazie all’azzeccata miscela di spettacolo, folklore, arte, industria.
Ma il jazz appunto in Africa, Asia, Oceania e soprattutto Americhe (tranne Stati Uniti) in principio non appare molto originale, anzi sembra piuttosto copiare o parafrasare quello di Nwe Orleans, Chicago, New York.
Vero, ma, dopo una fase iniziale di emulazione o scopiazzatura, verrà i declinato in ogni singola nazione, secondo regole proprie, intrecciandosi via via alle sonorità locali, alle culture autoctone, alle forme popolari, classiche, indigene, moderne, giovanili che ne faranno un’autentica musica di Mondi di volta in volta avveniristi, fantasmagorici, squillanti oppure.
Questo libro è unico nel suo genere per quanto riguarda panorama internazionale o ha dei modelli di riferimento?
Per quanto ne so non esiste nulla del genere in Italia (se non sulla world music) e nemmeno sul mercato mondiale, stando alle mie ricerche in rete, mentre non è che abbondino nemmeno le storie locali spesso di arduo reperimento «Il jazz e i mondi» è un libro che vuole anche essere lamemoria dei mie viaggi compiuti, da quando avevo vent’anni, come turista, per esempio tra Messico e Brasile, Giappone e Canada, Maghreb e Medioriente – oltre i numerosi incontri lungo lo Stivale con jazzisti da ogni Continente; insomma è una serie ventinove ministorie del jazz in Mondi ovvero Stati (o anche identità nazionali, etniche, religiose) sia familiari sia insospettabili, ma che, proprio per la loro natura plateale e arcinota o, al contrario, misteriosa e appartata, io credo che potrebbero riservare a tutti grosse sorprese.
Come già diceva nella prefazione a «Il jazz e i mondi» ha voluto lasciare da parte il Vecchio Contiente per un libro a sé, il sesto e al momento l’ultimo o meglio il nuovo volume dal titolo appunto «Il jazz e l’Europa».
Non si sa con esattezza dove i “nuovi ritmi” afroamericani sia approdati per la prima volta oltre i confini degli Stati Uniti, probabilmente nel vicino Canada, per questioni puramente geografiche; ma è senza dubbio in Europa che, oltre un secolo fa, durante e dopo la Grande Guerra al seguito delle truppe statunitensi, il “jass” trova subito entusiasmo, consenso, apprezzamento da parte via via di giovani musicisti, pubblico trasversale, élite artistiche. Ragtime, hot, dixieland, swing vengono presto assimilati, per essere quindi rielaborati in maniere autonome, singolari, originalissime, meglio che altrove.
Vuole dire che già negli anni Venti del XX secolo l’Europa esprime un proprio jazz autentico?
Sicuramente il jazz e l’Europa, nel corso del Novecento, diventano un unicum, sia pur differenziato nelle tante patrie di un vasto territorio, propenso a declinare il dixieland e lo swing in modo appunto europeo come avviene anzitutto a Parigi, la capitale culturale per antonomasia di tutto il Mondo già dal Settecento e più o meno fino al Sessantotto.
E per il jazz europeo è il Sessantotto, ovvero il Maggio francese lo spartiacque definitivo?
No, no, già prima, magari con come gioco di squadra, bensì quali casi isoliti con singoli jazzmen, via via il bebop, il cool, il free, la fusion, il modern mainstream in Europa vengono declinati con grande bravura, secondo peculiarità sia indigene sia sovranazionali. L’Europa del jazz o, se si vuole, il jazz in Europa diventa una realtà consolidatasi nel secondo Novecento, dapprima in Francia e Inghilterra, quindi in Olanda, Belgio, Germania, Italia e paesi scandinavi, per allargarsi ovunque, alla fine del “secolo breve”, grazie al crollo del muro di Berlino.
In effetti, anche solo a leggere i nomi presenti ai festival jazz italiani degli ultimi venti, trent’anni si trovano tantissimi europei.
In questo nostro XXI secolo l’Europa in jazz è allargata a tutti i paesi dell’Est e a quelli delle ex dittature fasciste, persino ai minuscoli staterelli di formazione più o meno recente. Nel libro vengono perciò ho narrato, in singoli capitoli, le vicende del jazz di una quarantina fra stati, regioni, metropoli, servendomi di documenti storici, interviste ai protagonisti e soprattutto ascolto di dischi, questi ultimi fondamentali quali riferimento assoluto per conoscere di volta in volta ad esempio l’Albania e la Svezia, le ex Cecoslovacchia e Jugoslavia, Mosca e Barcellona…
E ora tocca al settimo libro.
Nel 2023 dovrebbe uscire, ma per scaramanzia non ne voglio ancora parlare.


