// di Roberto Biasco //
Nel tardo pomeriggio del 9 dicembre del 1964, John Coltrane varca per l’ennesima volta la soglia dello studio di registrazione di Rudy Van Gelder, ad Englewood Cliff, nel New Jersey, a venti minuti da Manhattan. Il luogo non è casuale, presso quello studio di registrazione è stato inciso il meglio del jazz di tutta la costa orientale negli ultimi dieci anni, lo studio è il punto di riferimento fisso dei musicisti dell’area di New York; verrebbe da dire che le pareti della sala siano ormai intrise della musica di Monk, di Sonny Rollins, di Miles Davis, dello stesso Trane e di tutti gli altri, assorbita fin dentro i mattoni nel corso di centinaia di sessioni di registrazione.
Arrivano alla spicciolata i fidi uomini del suo quartetto “perfetto”: Mc Coy Tyner, Jimmy Garrison, Elvin Jones. Non sanno ancora che stanno per incidere uno dei capolavori, forse “il capolavoro” definitivo della storia del jazz, ma certamente, dopo anni di impegno duro ed incessante sono pronti a fare qualcosa di grande. Coltrane entra questa volta in studio con un progetto completo ed approfondito in ogni sua parte; in realtà gli appunti di note scritte sono pochi, anche se lungamente meditati, il resto dell’opera è affidato all’arte dell’improvvisazione – strumento creativo assolutamente indispensabile – a quella capacità di interazione, alle doti di empatia che il quartetto ha ormai affinato attraverso un sodalizio umano, prima ancora che artistico, forgiato e perfezionato nel corso del tempo, come dimostrato da album memorabili, come “Coltrane”, “Ballads”, “Live at Birdland” ed il recente ”Crescent”, quasi un “cartone preparatorio” della nuova opera in fieri.
“A Love Supreme” è stata da sempre definita, forse in maniera sin troppo riduttiva, come un’opera “religiosa”, o per meglio dire “spirituale” in senso lato: il poema in forma di preghiera a Dio riportato all’interno della copertina del disco originale, completato da un’accorata esortazione agli ascoltatori, non può dar adito a dubbi. I termini “religioso” e “spirituale” vanno però declinati nel contesto di un sodalizio di musicisti afro-americani all’inizio degli anni sessanta, all’acme delle lotte per i diritti civili in America. Siamo in un momento storico in cui gli uomini del nuovo jazz vanno alla ricerca delle proprie radici, per riscoprire il sapore del blues più ancestrale ed accentuano il carattere “africano” delle percussioni. Una musica suonata da musicisti neri, direi soprattutto per sé stessi prima ancora che per il pubblico, bianco o nero che fosse. Da qui inizia quella rivoluzione culturale, quella ricerca di identità che condurrà alla riscoperta delle proprie radici africane e che rappresenta lo scenario in cui si muove questa musica.
Una presa di coscienza che all’inizio fu essenzialmente artistica e culturale, limitata ad una cerchia ristretta di intellettuali, ma che ben presto sarebbe diventata sociale e politica, fino a sfociare nel movimento per i diritti civili. Identità Culturale e Diritti Civili, sono queste le coordinate che ci indicano la via maestra per poter comprendere a fondo questa vicenda. L’Africa venne riscoperta come origine non solo etnica ma soprattutto morale ed artistica. Il rifiuto della omologazione nella cultura bianca anglosassone porterà molti artisti, e non solo loro, ad abbracciare la religione islamica. Tra i primi furono proprio gli intellettuali e gli uomini del jazz. Lo scrittore e poeta Amiri Baraka (Leroy Jones), Abdullah Ibn Buhaina (Art Blakey), Sahib Shihab, Idriss Suleyman, il sudafricano Abdullah Hibrahim (Dollar Brand) e tanti altri. Seguirono a ruota gli eroi dello sport come Mohammed Alì e Kareem Abdul Jabbar.
Cambiare nome e religione era molto di più che un simbolo esteriore: rifiutare il nome anglosassone imposto agli schiavi liberati, cui veniva attribuito il cognome del padrone, significava rifiutare una storia, una cultura ed una religione che non venivano sentite come proprie, ma imposte dall’esterno, forse più opprimenti del marchio esteriore legato al colore della pelle. Fu proprio il giovane pianista Alfred “McCoy” Tyner, uomo di forte spiritualità e seguace della religione musulmana, ad introdurre il maestro alla conoscenza dell’Islam e più in generale delle filosofie orientali. L’approccio “spirituale”, ascetico, di John Coltrane trascende in ogni caso l’elemento “religioso”, la fisicità e la potenza materica di questa musica riportano bruscamente sulla terra, attraverso una sofferta meditazione sul destino dell’umanità.
Il quartetto si avventura ancora una volta in un viaggio nelle profondità del non cosciente. I quattro brani della lunga suite corrispondono ad altrettanti movimenti interiori: Aknowledgment, Resolution, Pursuance, Psalm – Presa di coscienza, Risoluzione, Persuasione, Salmo. Un cammino di riscatto e “redenzione” universale, ma che scaturisce anche da una dura esperienza personale, una rappresentazione di quanto vissuto sulla propria pelle sette anni prima, affrontando il drammatico percorso che lo avrebbe portato finalmente fuori dall’incubo della droga. Un colpo di gong annuncia il primo atto, un accenno melodico ricamato dal sax tenore, poi il contrabbasso di Jimmy Garrison scolpisce le tre note fatidiche, il mantra di “A Love Supreme” che domina tutto il primo movimento dell’opera, e che culmina nel canto sommesso e ripetitivo di quelle tre parole magiche. Sono sempre quelle tre note che ossessivamente Coltrane insegue e scava da anni, almeno dai tempi di “Blue Train”, e che torneranno ancora protagoniste in “Ascension”, il successivo tremendo capolavoro con il quale supererà definitivamente le colonne d’ercole dell’armonia occidentale.
Il secondo movimento – “Resolution” – realizzato dopo diverse prove – si dipana in maniera più “tradizionalmente jazzistica” a partire dalla variazione del tema principale, a tempo medio, sviluppando tutto il potenziale interpretativo ed improvvisativo del quartetto. Il terzo e quarto movimento sono invece eseguiti di getto, “dal vivo in studio”, senza soluzione di continuità, sulla lunghezza della seconda facciata disco. “Pursuance” accelera sulla spinta dei cembali di Elvin Jones, e in un crescendo parossistico si addentra nei territori più estremi e sperimentali, avvalorando le parole scritte dal critico Jean-Louis Comolli nel lontano 1965: “…..senza dubbio il jazz non è mai stato portato ad un tale punto di esaltazione, l’improvvisazione così vicina al delirio e la bellezza tanto vicina alla mostruosità, che è la perfezione superumana. Musica non celeste, ma infernale, in cui l’amore di Dio è la morte dell’uomo”.
Un lungo, oscuro assolo di contrabbasso precede l’ultimo movimento – il Salmo di ringraziamento. Da questo punto in poi sembra quasi che Coltrane abbia voluto prendere sulle proprie spalle il dolore e la tristezza dell’intera umanità, proseguendo poeticamente la lirica elegia di “Alabama”, incisa l’anno prima: un intenso doloroso requiem per le quattro bambine morte a seguito di un infame attentato razzista perpetrato ad opera del Ku Klux Klan nella città di Birmingham. L’estrema malinconia che permea l’intero brano è tutta giocata sul contrasto tra la mestizia del fraseggio del sax tenore ed il tono grave dei timpani africani di Elvin Jones, profondi ed inquietanti come le basse frequenze di una terra che trema, presenza minacciosa di una natura matrigna, nemica dell’uomo.
Quasi un sinistro presagio: John Coltrane morirà tre anni dopo, fulminato da una malattia incurabile, forse vittima inconsapevole dal suo fatalismo ascetico, dopo una vita passata nel terrore dei medici e dei dentisti. Tutto scorre: la cadenza del tema iniziale riaffiora di nuovo nell’epilogo, riaccompagnando l’ascoltatore verso il punto di partenza, metafora del continuo divenire nell’eterno ciclo della vita. “Non c’è mai una fine. Ci sono sempre dei suoni nuovi da immaginare, nuovi sentimenti da sperimentare. C’è la necessità di purificare sempre di più questi sentimenti, questi suoni, per arrivare a vedere allo stato puro ciò che abbiamo scoperto. In modo da riuscire a vedere con chiarezza ciò che siamo”. (Articolo parzialmente pubblicato sul settimanale LEFT nel novembre 2014)
PER APPROFONDIRE – LIBRI :
Per saperne di più consiglio i seguenti libri (alcuni dei quali – i più datati – sono purtroppo ormai fuori catalogo):
Gianfranco Salvatore : “John Coltrane : Un sax sulle vette e negli abissi dell’io” – Jazz
People – Stampa Alternativa – 1998;
Eric Nisenson: “Ascension” – Testo & Immagine – 1993 / 2002;
Roberto Valentino: “John Coltrane” – Legends Jazz – Editori Riuniti – 2005.
Sono invece tuttora reperibili o più volte ristampati:
“A Love Supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane” – Il Saggiatore;
Ashley Kahn: “Blue Trane. La vita e la musica di John Coltrane” di Lewis Porter – Minimum Fax.
Ashley Kahn: “The House That Trane Built : The Impulse Label Story” – Il Saggiatore 2007
Francesco Cataldo Verrina: “Coltrane: Il Passo del Gigante” – Kriterius – 2021;
Francesco Cataldo Verrina: “Impulso Jazz –Storia e Capolavori della Impulse! Records”- Kriterius – 2022;
DISCHI:
Oltre all’edizione originale pubblicata su etichetta Impulse! nel febbraio del 1965, e facilmente reperibile su CD o su vinile, segnaliamo la De Luxe Edition di “A Love Supreme” in doppio CD pubblicata per la prima volta dalla Universal/Impulse! nel 2002 e poi più volte rieditata, che contiene tra l’altro un’ottima registrazione dal vivo del capolavoro, eseguita in quartetto al festival di Antibes nel luglio del 1965.
Gli inediti di quelle sessions, riportati nella De Luxe Edition e registrati con formazione allargata a sestetto, con l’aggiunta di Art Davis come secondo contrabbasso e Archie Shepp al sax tenore, sono invece poco più che prove di studio che poco o nulla aggiungono al valore dell’opera.
Una nuova registrazione dal vivo – “A Love Supreme – Live in Seattle” (2 ottobre 1965) – con formazione allargata con la presenza di Pharoah Sanders al sax tenore e percussioni, Carlos Ward al sax alto e Donald Garrett al contrabbasso, è stata pubblicata su etichetta Impulse! nel 2021. In questo caso però la qualità della registrazione amatoriale giocoforza non riesce ad essere all’altezza dell’importanza storica del ritrovamento.
Vi sono poi innumerevoli rivisitazioni – spesso ad onor del vero tutt’altro che memorabili – eseguite nel corso degli anni da moltissimi musicisti, da Carlos Santana insieme a John McLaughlin, a Groover Washington fino a Wynton e Brandford Marsalis e tanti altri. Ma questo potrebbe essere oggetto di un approfondimento “ad hoc”.

