// di Bounty Miller //
John Richmond – «Round Once», 1983
Alcuni scritti su John Richmond descrivono il timbro del suo sax tenore come «ricco, potente e rotondo», il suo stile come «fluido, solido, individuale, variegato e ricco di sfumature», soprattutto si parla di lui come di un musicista completo che «suona con intelligenza armonica».
La sua formazione culturale è alquanto articolata e va dalla musica classica, al soul, dal rock al blues: sono molti gli artisti che l’hanno influenzato: Charlie Parker, John Coltrane, Sonny Rollins, Joe Henderson, Wayne Shorter, Dexter Gordon, Miles Davis, Herbie Hancock, Bela Bartok, Jimi Hendrix, Frank Zappa, BB King e James Brown. Egli stesso si racconta così: «Quando ho sentito Charlie Parker per la prima volta sono rimasto così colpito ed ispirato che ho sentito il bisogno di dedicarmi al sax alto. Più tardi, ascoltando Trane, Sonny Rollins, Wayne Shorter e Joe Henderson, ho cambiato idea, mentre il sassofono tenore conquistava letteralmente il mio cuore e la mia mente». Richmond si è esibito per lungo tempo al Turning Point Cafe di Piermont, New York, dove si svolgevano regolarmente le sessioni di Monday Open Jazz e una serie di concerti a cui prendevano parte artisti di rilevo sulla scena della Grande Mela.
Artista poliedrico in grado di suonare flauto, clarinetto, sassofono soprano, contralto e baritono, oltre al tenore che è lo strumento di elezione, a parte il suo insegnante Joe Allard, dice di avere un debito di riconoscenza con Kenny Kirkland: «Devo menzionare l’influenza che il mio amico e compagno di classe Kenny Kirkland ha avuto su di me. Ho passato molto tempo con lui, suonavamo insieme quasi ogni giorno mentre eravamo alla Manhattan School of Music, e da lui ho imparato moltissimo. Kenny cresceva in modo esponenziale giorno per giorno, era sorprendente, mentre la maggior parte di noi migliorava in modo un po’ lineare. La sua perdita è stata un duro colpo per me e per tante persone». Il sassofonista deve, però, molto anche a Dave Tofani, Charles Russo, Harvey Estrin, Mike Longo, David A. Gross, Ramon Ricker e Tim Price, a cui è legata la sua formazione di base.
Una curiosità: John Richmond ha vissuto in Italia dove ha collaborato con ilSan Remo Jazz Festival e con Umbria Jazz, dando un contributo notevole alle Jazz Clinics. Per un periodo della sua vita il sassofonista si era interessato al pugilato, a cui rese omaggio in questo primo album, pubblicato dalla Consolidated Artists e chiamato per l’appunto «Round Once», nel quale compare un brano con la sua firma, «Blues For Mr. Snipes» dedicato agli insegnanti di boxe, i pugili Renaldo Snipes e Herschel Jacobs. Il componimento è un distillato di sangue blues dai globuli instabili, spalmato su una struttura accordale flessuosa come i movimenti di boxeur sul ring e sostenuto da una rimica saltellante che ricorda vagamente l’andamento di un incontro di pugilato. Dal canto suo, il sax assesta colpi decisi, ripetuti e cadenzati con un fraseggio che sembrerebbe schivare la controffensiva della sezione ritmica, specie basso e batteria che ad un certo punto decidono di lottare in piena autonomia, mentre il piano funge da spaziatore tra un round e l’altro. Registrato al Tel-Tis Enterprises Studio di New York l’8 febbraio 1983, il set vede in prima linea John Richmond al sassofono tenore e al soprano, Michael Longo al pianoforte, Buster Williams al basso e Al Harewood alla batteria. L’album ebbe subito una calda accoglienza in America efu scelto dalla rivista Cash Box come il migliore dell’anno, raccogliendo molte critiche favorevoli.
Richimond guida un quartetto compatto capace di distillare un ottimo post-bop spigoloso e trasversale, pur operando in massima parte su alcuni evergreen, i quali vengono restituiti in maniera sorprendentemente originale, uno su tutti: «In a Sentimental Mood» di Duke Ellingnton che passa a nuova vita, anni luce distante dal modo in cui molti altri lo avevano eseguito prima, ossia in maniera sempre molto ligia e regolare, forse perché spaventati dalla composizione di cotanto genio. Nel progetto di Richmond, l’andamento ritmico è meno scontato ed imbalsamato, così come l’impianto armonico di base, mentre le variabili tematiche della melodia, sia pure non snaturate, diventano molteplici. Lo stesso schema è applicato a tutti i componimenti presenti nella track-list. Non sono da meno gli inediti arrangiamenti apportati a «Bolivia» di Cedar Walton, in parte spogliata del suo eccessivo «tropicalismo» e trapiantata in un humus molto più funkfied e metropolitano, attraverso un groove nervoso e poliritmico, su cui il sax si aggroviglia con un fraseggio pieno e voluminoso alla Rollins, ma a tratti asimmetrico, scalare e cumulativo alla Coltrane. «Played Twice» di Thelonious Monk, componimento non facile da domare, pur mantenendo nell’assolo pianistico di Longo l’andamento dubbioso e picchiettante del modulo monkiano, è corroborato da una serie di trattamenti energizzanti, rimodulato e modalizzato nella struttura armonica, tanto da consentire al sax di Richmond un movimento più obliquo fatto di riff brevi e pungenti, quasi ostinati e ben implementati dalla retroguardia.
«The Song Is You» è un altro standard, oggetto di culto e di mille battaglie per molti jazzisti, che brilla di nuova luce. L’inizio sembra ligio alla partitura originaria, ma al primo cambio di passo, la sezione ritmica sembra spingere in velocità il sassofonista su un terreno di caccia più impervio, che in qualche passaggio ricorda Joe Henderson. Il pezzo forte è la riproposta di «Star Eyes», in apertura della seconda facciata, che da sola vale il prezzo della corsa. Nel modus agendi di Richmond e soci la classica composizione di Raye e DePaul diventa una ballata a giri alterati e con una ritmica mutevole dai contrafforti afro-latini, specie nell’abbrivio. Il più fedele alla linea nativa sembra il pianista, ma è solo una tregua: il ritorno del sax disarticola il tema standard per poi divergere verso una melodia più caustica, accidentata e lontana anni luce dalle music-hall e dal prime-time radiofonico. Qualora John Richmond fosse sfuggito ai vostri radar, cercatelo, potrebbe essere un piacevole scoperta, anche per coloro che credono di sapere già tutto sul jazz moderno.
