// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

L’estetica di Price (1887-1953) è un amalgama di storie all’interno di altre storie e di storie altrui. Verrebbe facile accennare alla biforcazione fra un’eredità popolare di origine africana e una tradizione accademica di provenienza europea, ma sarebbe solo sfiorare la superficie delle intersezioni caleidoscopiche al centro dell’estetica della compositrice africano-americana. Le sue composizioni celano una serie di nozioni musicali che hanno stimolato diversi ideali di nazionalismo del Nuovo Mondo. Esse comprendevano i primi sforzi degli etnomusicologi del diciannovesimo secolo di trascrivere i canti popolari dei discendenti degli schiavi africani in America e la loro successiva concertizzazione all’interno di un’opera di divulgazione, volgarizzazione e commercializzazione della tradizione musicale africano-americana. Altresì, tali sforzi non mancarono di accomunarsi al desiderio degli intellettuali americani di creare, già nel XIX secolo, una voce musicale accademica originale e specificamente nazionale. Ma l’opera di Florence Price fa pure parte degli sforzi e dei successi dei compositori del XX secolo di origine africana che hanno rivendicato una propria voce, diversa eppure altrettanto nazionale e americana, attraverso i materiali e le manifestazioni delle tradizioni popolari e folcloristiche africano-americane.

Appartenenza etnica, genere e cittadinanza hanno sempre definito le nozioni di nazionalismo del Nuovo Mondo. Tuttavia, a lungo si è considerato che i suoi legittimi sostenitori incarnassero contemporaneamente la “bianchezza” (whiteness), la mascolinità e l’americanità. Questi presupposti hanno attraversato l’ambito della musica accademica, quando le idee di una scuola musicale americana cominciarono ad emergere nel XIX secolo. Douglas Shadle (“Orchestrating the Nation: The Nineteenth-Century American Symphonic Enterprise”, Oxford University Press, Oxford 2016) argomenta che “la storia dell’impresa sinfonica americana del diciannovesimo secolo è stata come un inverno che non si è mai trasformato in primavera”. Il freddo gelido è stato rappresentato dall’amnesia selettiva provocata da diverse agende ideologiche, dal rifiuto delle opere che non sembravano essere conformi a determinati modelli accademici alla negazione di qualsiasi identità nazionale.

Le donne africano-americane non facevano nemmeno parte di questa concezione che scaturiva dalla contrapposizione tra la scuola cosmopolita che favoriva “la padronanza tecnica … le forme e … i principi europei” e la scuola provinciale che minimizzava i tratti eurocentrici e privilegiava “l’originalità, la sperimentazione, l’eclettismo e l’assenza di autocoscienza”: la bianchezza, la mascolinità e l’americanità sembravano definire i due estremi dello spettro teorico. Si riteneva d’altronde che “le donne fossero incapaci di comporre in forme più ampie”, intendendosi per donne i costrutti socio-culturali contemporanei della femminilità delle donne bianche. Le possibilità e le potenzialità delle donne che non fossero bianche erano non solo negate del tutto, ma neanche prese in possibile considerazione: più semplicemente, non esistevano. Come osserva Teresa L. Reed, “le idee sbagliate sull’intelligenza delle donne (bianche) e di quelle africano-americane creavano una barriera praticamente insormontabile per qualsiasi donna africano-americana che aspirasse a comporre accademicamente nell’Ottocento”. Nel XX secolo, questa barriera sarebbe stata superata da Florence Price, la prima compositrice africano-americana di spicco e di straordinario talento.

Il ventesimo secolo ha riprodotto i connotati di un nazionalismo del Nuovo Mondo centrato su specifiche costruzioni di razza (piu ancora che etnia), genere e cittadinanza; ma dove si è collocata l’estetica di Price tra le spinte e le sollecitazioni del cosmopolitismo e del provincialismo o regionalismo? In che modo Price, scontrandosi con le aspettative di “bianchezza” e mascolinità del suo essere americana, ha negoziato le nozioni di un nazionalismo del Nuovo Mondo che sono state storicamente costruite e contemporaneamen, perpetuate per rendere la sua identità dissonante, estranea, aliena e repellente? Sebbene Price non lavorasse esclusivamente con gli idiomi musicali africano-americani, che cosa può aver significato per lei radicare così tante delle sue opere (soprattutto le realizzazioni su larga scala) in un patrimonio popolare africano-americano? Esistevano altri contesti sociali e altre possibilità culturali, che esulassero dal discorso maschile bianco, in cui collocare la sua estetica? Questi interrogativi affiorano naturalmente recependo la grazia, la finezza, l’arguzia, la maestria con le quali Price tratta i materiali della propria tradizione, come ne fa affiorare l’originalità e l’unicità, come evidenzia il valore di tratti del tutto lontani dalla concezione eurocentrica, fra i quali un linguaggio del corpo che nessun autore europeo avrebbe saputo neanche lontanamente non dico imitare ma neanche avvertire.

Florence Price (1887-1953): “Dances in the Canebrakes” for orchestra (1953)