// di Francesco Cataldo Verrina //

Parlando di Joe Henderson va fatta una piccola premessa in relazione ad una presunta idea di poetica nel jazz. Il concetto di poetica è di natura estetica e si riferisce a tutte le espressioni artistiche, non solo alla poesia – come erroneamente suggerito dal nome – ma anche alla pittura, alla scultura, alla musica, al design, alla cinematografia e alla letteratura in genere. La poetica rappresenta l’insieme strutturato ed organico degli intenti espressivo-contenutistici che un artista esplicita attraverso le sue opere.

Parlando di Joe Henderson, sovente, una domanda sorge spontanea: se, nel suo caso, sia possibile parlare di poesia allo stato puro. I tratti salienti del suo sax tenore nitidamente distintivi, il timbro ed il costrutto melodico assumono talvolta le sembianze di una liricità stupefacente, mentre lo strumento diventa una voce narrante capace di emettere frasi, rime e parole. Diceva Giambattista Marino: «È del poeta il fin la meraviglia. Chi non sa far stupire, vada alla striglia!». In Joe Henderson tutto si compenetra in una cremosa voluttà fatta di musica e poesia. La curiosità eclettica e divergente di Joe compongono un mazzo di chiavi capace di aprire le tante porte del jazz moderno, lasciando un passepartout alle generazioni future. La visione del jazz, rigorosa ed appassionata al contempo, diventa un filtro leggero fra tradizione e contemporaneità. L’attualità di Henderson non si è mai sopita o svalutata nel tempo essendo, idealmente, capace di unire le trame di un dipinto ricco di armonia e cromatismi che superano i confini dello spazio e del tempo, o di allineare i punti rilevanti di una poesia in musica, facendone un verso unico e riconoscibile. Joe Henderson è stato un musicista ed un compositore sapiente (spesso non trattato con dovizia di particolari dai libri di storia) in grado di posarsi su ciò che nel jazz era rilevante, sia pur trattandosi spesso solo di un dettaglio, ma che molti altri con capivano o non vedevano; uno strumentista pronto a destrutturare la materia trattata, divagare, esplorare, indagare, scendere in profondità, riemergendo sicuro di trovare sempre la strada maestra del jazz allo stato dell’arte.

Quanto affermato sul sassofonista è contemplato pienamente nell’album «The Standard Joe» che può essere considerato come l’epitome della sua produzione e la sintesi di poetica musicale, quasi palpabile, divisa tra classici del suo repertorio e la rivisitazione di alcuni evergreen appartenenti ad altri autori. Quest’ultima caratteristica costituiva un fatto del tutto inedito, poiché il sassofonista non si era mai misurato con determinati standard: Joe non amava molto i luoghi comuni e l’omologazione, quindi tutto ciò che passava tra le sue mani diventava quasi inedito e rivitalizzato da una nuova linfa creativa. La ristampa in vinile di pregio dell’album, «The Standard Joe», è disponibile sul mercato in edizione limitata in doppio LP da 180 grammi contenente la sessione completa, numerato e rimasterizzato dai nastri analogici originali restaurati per l’occasione dalla nuova Red Records di Marco Pennisi. Il primo produttore esecutivo Sergio Veschi racconta: «Il disco venne realizzato alcuni giorni prima della firma del contratto con la Verve, con le trattative già in corso, ed fu fortemente voluto da Henderson che non aveva mai nascosto il suo apprezzamento per la Red Records coniando per la stessa lo slogan «Red Records is the Blue Note of Europe» e cogliendo, così una felice sintesi: sia il riferimento ad una tradizione artistica forte, sia la specificità locale della stessa. Henderson mi chiese, visto che ero produttore del disco, che cosa mi aspettassi da lui. La risposta fu:«suona quello che ti pare». Joe ribadì che, dovendo lavorare per me, intendeva sapere ciò che mi aspettavo da lui. Questo tira e molla (non privo di qualche imbarazzo da parte mia. Mai mi sarei aspettato una simile richiesta) si concluse, visto che ero un grande estimatore di Henderson come solista e compositore, solo quando gli proposi di suonare sue composizioni già registrate nei dischi da leader degli anni Sessanta per la Blue Note».

In realtà le cose andarono in maniera leggermente diversa: Joe Henderson cambiò le carte in tavola, affiancando alle sue composizioni alcuni famosi standard. «Joe Henderson ovviamente apprezzò molto la proposta ma ci mise molto del suo e non avrebbe potuto essere altrimenti come ben sa chiunque abbia avuto modo di frequentarlo», prosegue, Veschi. «Con intelligenza, e Joe era una delle persone piu intelligenti che io abbia mai conosciuto oltre ad essere persona di vasti interessi e curiosità, scelse di suonare brani di Strayhorn, Ellington, Monk e Body and Soul, lo standard che piu standard non si può, accanto alle sue composizioni originali degli anni 60». «The Standard Joe» fu registrato al Sears Sound di New York il 26 marzo del 1991 nel formato trio per sax pianoless, formato assai caro a Sonny Rollins, a cui Henderson aveva sempre guardato con interesse. Il sassofonista fu accompagnato da Rufus Reid al basso e da Al Foster alla batteria. Un tridente senza un pianoforte sviluppa una forma mentis sonora assai particolare. Generalmente, senza la presenza «ingombrante» del piano che tende a dominare indicando il percorso armonico, il sax diventa padrone assoluto del front-line con l’arduo compito di colmare tutti gli spazi melodici e soprattutto di muoversi liberamente, mentre basso e batteria ne sostengono le finalità e fungono da spartiacque tra un cambio di passo e l’altro andando a riempire gli interstizi, mentre l’interplay risulta funzionale ai soli propositi dell’unico strumento solista in scena. Al contempo, la retroguardia ha a disposizione, più tempo per evidenziarsi: nelle varie tracce dell’album non mancano infatti lunghi assoli sia di basso che di batteria, i quali fanno da collante alle varie fasi improvvisative di Henderson che usa una chiave di lettura differente rispetto alle versioni originali dei brani, ponendoli sotto una luce diafana e attenuata, ad iniziare da «Blue Bossa», a firma Kenny Dorham, proveniente da «Page One» del 1963, che segnò il debutto da band-leader di Henderson per Blue Note. «Blue Bossa», senza il contrappunto pianistico di McCoy Tyner e la sponda in prima fila della tromba di Dorham, perde molto delle sue caratteristiche latine, divenendo una lunga escursione ipermodale, in cui Henderson diventa più tagliente, trasversale ed esplorativo agendo spesso sul registro più alto dello strumento, mentre molti spazi compensativi sono affidati ai due sodali.

«Inner Urge», dall’album eponimo del 1964, è un’odissea di oltre undici minuti, dalla struttura geneticamente aperta e declinabile per vie angolari. In questa circostanza Henderson altera gli atti costitutivi dell’architettura armonica, riproponendola con un fraseggio più articolato e fendenti improvvisativi più mordaci, i quali la distanziano fortemente dalla versione originaria. In particolar modo la retroguardia ritmica sembra suggerire cambi e andamento, influenzando il mood complessivo del costrutto sonoro, che diventa una strada alternativa rispetto a quanto il sassofonista aveva proposto in passato. Perfino «Body And Soul», il classico dei classici, terreno di coltura per tutti i sassofonisti, diviene una pagina bianca da riscrivere, squadernata secondo un pensiero laterale: in entrambe le take presenti sull’album, Henderson rimodella l’impianto melodico, rendendolo a volte più sospeso e meditabondo, altre abissale, dissonante e profondo con un apporto di pathos e poesia per sax tenore, pur non scadendo mai nel melodismo a buon mercato del tipico standard da applauso garantito. La seconda take di «Body And Soul», che occupa l’intera quarta dacciata, in particolare, è giocata in overclocking sulle fasce laterali, attraverso uno stravolgimento ritmico-armonico ipermodale a volo libero, mentre la tensione della modernità del jazz si si vaporizza fra le pieghe dell’album. Scrisse R.C. Smith su The Herald-Sun: «Difficile superare un trio con Joe Henderson, Rufus Reid al basso e Al Foster alla batteria. Questo disco è un classico di Henderson fino in fondo, specie in Body and Soul. Lo scrittore Gary Giddins ha contato 3.000 versioni registrate di questo classico del jazz, e tutto ciò sino al 1980. Ebbene, la versione di Henderson è ai vertici di tale classifica».

«Take The Train» di Duke Ellington, prosciugato dai fronzoli orchestrali, muta in un canto aspro dalle venature dissonanti, che fanno pensare ad una sorta di swing brunito messo in un contenitore sottovuoto spinto, da cui il sax libera armonie e cromatismi, centellinandoli in un rutilante susseguirsi di variazioni tematiche e di modularità improvvisative, mentre dalla retroguardia Foster e Rufus usano cadenze e tempi non propriamente tipici delle orchestrazioni del Duca. «Round Midnight» è una delle composizioni monkiane più eseguite della storia del jazz moderno, con illustri precedenti, eppure Henderson e soci ne fanno una loro creatura, rigenerandola nella forma e nella sostanza senza imbrigliarne gli assunti di fondo e preservando quell’aura magica da promenade notturna, avvolta in un paesaggio crepuscolare, umido e decadente. È ciò che i critici letterari chiamano poetica dell’abbandono e del distacco. L’estro di Henderson emerge soprattutto nella parte divergente del costrutto melodico di base, attraverso una serie di fughe improvvisative cariche di pathos e presagi, a tratti misteriose e sotterranee, che raccontano, forse, con una velata amarezza, di personaggi e mondi lontani nel tempo. Parliamo di uno degli standard jazz più utilizzati e spesso anche abusati. Sono davvero pochi gli esponenti di spicco della nomenclatura jazz del dopo guerra a non averne tentato una personalizzazione, ma la versione di Joe Henderson svetta sulle cime di un Olimpo abitato da divinità assolute. La terza facciata si conclude con «Blues In F (In’ N Out», dove Henderson mette sottovuoto spinto tutte le tentazioni coltraniane: Il suo incedere e caldo e potente, più radicato nella costruzione deliberatamente ipermodale, mentre lo sfogo emotivo e contenuto dal sopraggiungere puntuale dei due sodali e da un reiterato interplay, che somiglia ad un reinvenzione in tempo reale.

Per concludere ancora le parole di Sergio Veschi: «La musica di Henderson non sempre è di facile approccio, ma in essa si trovano dei tesori e delle raffinatezze che illumineranno il mondo del jazz per le generazioni a venire. Come tutti i grandi, Joe Henderson non si ripete mai, e non suona mai due volte nello stesso modo lo stesso tema. In «The Standard Joe», ma anche in «An Evening With», sono contenute in nuce la tematiche sviluppate poi nei suoi dischi Verve dal successo planetario, ma di cui egli da già ampia dimostrazione». In sintesi nei dischi prodotti dalla Red Records, c’è una summa della poetica sonora di Joe Henderson: ciò che era stato in passato e quello che sarebbe diventato in futuro.