// di Bounty Miller //
Il rock aveva reso popolare e di conseguenza sdoganato il rhythm and blues. I cantanti e musicisti di colore, eccezion fatta per il jazz, riscuotevano l’attenzione del pubblico generalista e non confinato alle race records solo quando essi rinunciavano alle loro forme espressive più autentiche e ortodosse alla tradizione africano-americana per seguire la corrente dell’easy-pop più gradita ai bianchi. Col tempo la febbre del rock si placò, il vigore si attenuò, divenendo spesso melodia al miele mille fiori. Questa sintesi agro-dolce di ritmo saltellante e sentimento a buon prezzo non fu opera dei soliti magnati dell’industria fonografica bianca, ma di un intraprendente uomo di colore, artefice di un’organizzazione discografica indipendente gestita da soli neri. Detroit, uno dei centri dell’industria automobilistica americana, era un’area in cui si addensavano i gruppi sociali e le etnie piu disparate: poveri e ricchi, bianchi, ispanici, neri, asiatici, avventurieri ed artisti in cerca di fortuna. Tra di essi anche molti jazzisti e bluesmen squattrinati in cerca di riscatto economico e di una redemption artistica, soprattutto quando l’eco della fabbrica gordiana di successi divenne assordante.
La massima città del Michigan, nel breve volgere di qualche anno, impose il suo preciso stile musicale, il cosiddetto «Detroit Sound», sulla base di una ricetta ad ingredienti misti e facilmente digeribili inventata da un ex pugile squattrinato di nome Berry Gordy Jr. Nel giro di sette anni, la sua Motown Company (da Motortown = Detroit, città dei motori,) innescò un meccanismo di inarrestabile ascesa, lanciando una vera e propria OPA al mercato e alle charts, notoriamente ad appannaggio esclusivo del rock e del pop bianco, tanto che in alcuni momenti l’etichetta di Detroit fu la più importante ed attiva fucina di successi a presa rapida. Fino a 26 anni Berry Gordy aveva lavorato come stuccatore con suo padre, per un anno com operaio specializzato, carrozziere e tappezziere, nelle officine Lincoln Mercury, quindi si era dato al pugilato. Nel frattempo aveva fatto il paroliere per qualche cantante locale, ottenendo piccoli attestati di stima. Il 1959 fu l’anno della sua occasione. Gordy dopo aver ricevuto in prestito dai genitori settecento dollari, avviò una produzione discografica e lanciando quello che il mondo intero avrebbe conosciuto come Detroit Sound. Gordy ebbe molto intuito, ma anche grande fortuna, favorito da una congiuntura economica favorevole, un ammodernamento delle tecnologie atte all’incisione e alla riproduzione dei dischi, ma soprattutto al progressivo abbattimento delle barriere razziali fra consumatori ed acquirenti di musica. Con le sue primissime pubblicazioni (1960-62), Gordy non riuscì a raggiungere quel sound immediatamente identificabile, che più tardi sarebbe stato etichettato col marchio Motown: erano ancora brani R&B o doo-wop convenzionale, come «You Got What It Makes» di Mary Johnson, «Way Over There» dei Miracles, o tipici twist, come «Please Mr. Postman» delle Marvelettes e «Do You Love Me?» dei Contours.
Come in una palestra di pugili «la competizione era fortissima», raccontava Quincy Jones, concorrente della Motown, di cui tuttavia era un sincero ammiratore. «Ma non era una lotta tra ego, era una competizione per diventare sempre migliori…i numeri uno». Uno degli autori e produttori della etichetta di Gordy, Norman Whitfield, sosteneva: «La competizione era al centro di tutto alla Motown, perché competere era l’unico modo per diventare importanti». Per giudicare la bontà e la resa finale delle registrazioni, l’ex-pugile adottò un particolare sistema di controllo della qualità, attraverso un focus group costituito da frotte di ragazzini, che si alternavano nell’ascolto dei nastri appena usciti dallo studio. Per quanto potesse apparire improvvisato, questo meccanismo consenti di minimizzare i contrasti interni alla casa discografica, individuare subito i brani destinati a un successo immediato e proporsi in maniera credibile come «The Sound Of Young Amarica», («il suono dell’America giovane»), questo era il claim dell’etichetta di Detroit. L’obiettivo era raggiungere il pubblico più ampio, nel più breve tempo possibile.
Negli anni la Motown non produsse soltanto dischi, specie dopo l’acquisizione di altre società collegate al mondo dello spettacolo, nonché un’agenzia per la gestione dei concerti degli associati ed una casa editrice musicale per la gestione dei dritti d’autore e di riproduzione dei suoi dischi. I dipendenti, in gran parte erano imparentati fra di loro, si sentivano parte di una famiglia che amministrava la cosiddetta «Hitsville», la «città degli successi» di Detroit. Il sistema del clan familistico (ripreso in Italia anni dopo da Celentano) fu piuttosto redditizio per il boss ma molto meno per gli affiliati, i quali venivano stipendiati e non pagati in percentuale in base al successo. Alcuni autori non ricevevano le royalties per i brani scritti ma solo un compenso forfettario a prestazione. II fatturato della famiglia Gordy raggiunse la cifra stratosferica per quegli anni di dieci milioni di dollari nel 1964, quindici nel 1965 e quasi venti milioni nel 1966, partendo dai i soli quattro milioni e mezzo del 1963.
Nel 1966, la Motown immise sul mercato un terzo dei dischi americani più venduti in tutto il mondo. Un distinto ed inconfondibile Motown Sound, largamente dovuto al lavoro di Gordy e del suo trio autorale, Eddie Holland, Lamont Dozier, Brian Holland (H-D-H), iniziò ad affermarsi a partire dal 1963. Nati per essere ballati e per essere ascoltati, soprattutto con le radioline a transistor e suonati nei juke box, i prodotti di casa Gordy irretivano gli ascoltatori con un mix di voci soul-gospel, l’uso particolare delle percussioni e del caratteristico basso di James Jamerson, l’enfasi sui piatti ed il continuo ripetersi dello schema principale della canzone. Dal 1963, il team H-D-H creò in successione ben ventotto hits d’alta classifica per una rosa di musicisti chiamata la Hall of Fame del soul: Supremes, Temptations, Four Tops, Miracles, Martha And The Vandellas, Marvin Gaye, Jackson 5, The Commodores e Stevie Wonder.

Le condizioni di partenza dei creatori del Detroit Sound furono uguali a quelle di molti giovani musicisti di colore. Gordy e i suoi collaboratori provenivano da famiglie povere, in parte dagli slums, e s’erano fatti le ossa nei ghetti neri. Una volta Barry diede questa descrizione dello slum: «Topi, scarafaggi, lotta, talento e amore». Il talento e l’amore gli rimasero attaccati addosso, tanto che ne fece il nucleo vitale del sound della sua gente, presentato come brown music, un un mistura di soul e rock melodico e cadenzato, irrorato da una vena di gospel.
Studiosi a vario titolo si sono spesso domandati: «Ma fu veramente la musica di neri? Non si trattava, piuttosto, di un desiderio di evadere dalla vita dello slum, di avere successo ad ogni costo, di staccarsi dalle loro condizioni di partenza, di cancellarle dalla memoria?». Gli artefici del suono Motown non cercavano di superare la propria origine attraverso la musica e le parole o di denunciare talune condizioni di disagio a livello d’impegno politico; al contrario, si servivano della conoscenza diretta di talune situazioni ambientali e sociali per nascondere eventuali problemi e per evaderli in modo indolore. Ai loro sostenitori essi dicevano: «Non prendetevela. Ascoltateci e dimenticate i vostri guai». La loro musica musica era diventata facile e coinvolgente come una droga, anche i Beatles ne furono affascinati. Una nota canzone delle Supremes, uno dei primi gruppi al femminile a fare le fortune della Motown, dice: «Non possiamo dimenticare la città delle automobili, ma tutto ciò che ci occorre è musica, dolce musica!».
Quello della Motown fu solo un riuscito azzardo, favorito dalla confluenza di talenti in una concentrazione tale, che a volte certe produzioni si accavallavano sul mercato facendosi concorrenza fra di loro. Si potrebbe pensare ad uno spreco o ad una cattiva programmazione, ma un’altra carta vincente di Gordy fu il concetto di «divide et impera», sviluppando forti rivalità tra i vari artisti del suo catalogo. Marvin Gaye ricordava come Gordy scommettesse con gli impiegati e i sottoposti su quale, tra due gocce di pioggia scelte a caso sul vetro bagnato della finestra, sarebbe scesa per prima. Un aneddoto divertente ma non banale, perché rivela la natura di Berry. Come tutti i i self-made-men capaci di azzardare, Gordy, in buona sostanza, era uno scommettitore nato ma possedeva anche l’indubbia ed innata capacità di far emergere il meglio da ognuno dei suoi collaboratori e degli artisti legati al suo roster: incensandoli, umiliandoli, pagandoli in ritardo, mettendoli in luce, adombrandoli, ricattandoli e mettendoli uno contro l’altro.
La canzone era diventata merce di consumo e anche il compratore, agli occhi dello scaltro produttore, altro non era che un bidone da svuotare. Il consumatore di dischi era conquistato, specie dalle raffiche di singoli in produzione seriale fatti con gli stessi ingredienti ed il solito stampino, complice il reiterato airplay radiofonico di talune hits. L’acquirente seguiva la modo ed il flusso del momento, rinunciando alla propria indipendenza, metabolizzando tutto ciò che gli si metteva «sul piatto», premasticato e ben edulcorato. Come diceva lo stesso Gordy: «La Motown voleva fare musica per tutti, bianchi e neri, blu e verdi, guardie e ladri. Non volevo escludere nessuno». Naturalmente, il denaro fu una parte fondamentale della spinta motivazionale e della formula che portò molti artisti di colore al successo planetario. Avendo sperimentato da ventenne che cosa significasse essere in bolletta, Berry Gordy Jr. aveva sviluppato un approccio assolutamente pragmatico e realista: prima di essere pubblicato, ogni disco della Motown doveva passare un rigoroso test per la serie prendere o lasciare. A monte la domanda che il patron si faceva era sempre la stessa: «Se avessi in tasca il tuo ultimo dollaro, compreresti questo disco o un panino?».
Sul calare degli anni ’60, l’etichetta di Detroit si arrese di fronte all’avanzata di altre agguerrite correnti musicali. A seguito di una disputa contrattuale, i due Holland e Dozier abbandonarono il padre-padrone Gordy al suo destino, mentre l’ingranaggio Motown cominciò a perdere giri e velocità. Il declino della compagnia di Detroit continuò lento, ma inesorabile, anche negli anni ’70, mentre molte delle sue punte di diamante cedettero alle lusinghe di altre case discografiche. Ad ogni modo, è necessario riconoscere che alcuni artisti, rimasti all’interno della famiglia Motown, come Stevie Wonder, Marvin Gaye, Lionel Richie, Diana Ross, Temptations e Smokey Robinson acquisirono negli anni un posto di rilievo tra gli alfieri della black music per antonomasia. La Motown stessa spostò il suo quartier generale a Hollywood. Dopo il trasferimento in California, nella Motor City del Michigan rimase solo quello che oggi rappresenta il museo storico della Motown, ubicato nella sede originaria, la cosiddetta Hitsville USA
