// di Francesco Cataldo Verrina //

Talvolta le definizioni non hanno molta attinenza con i generi trattati, ma nella parola «cool», il cui significato dominante è fresco, refrigerante e, in alternativa, calmo, sereno, tranquillo, durante la grande epopea del bop fu associato ad un jazz più freddo e rilassato, spesso più vicino allo stile West Coast Jazz. Il termine «cool» trovò una nuova compliance nel concetto di new-cool, fenomeno anglofono emerso negli Ottanta, conquistando una considerevole quota di mercato. Il new-cool nacque come una sorta di antitesi, una di liquido di contrasto, un reagente, un antidoto alla violenza corrosiva, devastante e nichilista del punk, un diluente creativo contrapposto alla marcata spersonalizzazione, derivante dall’uso troppo disinvolto di certe tecnologie elettroniche, un corroborante vitaminico a sostegno della magrezza d’orizzonti e alla pochezza d’inventiva tipica della wave-dance, che privilegiava il ritmo attraverso il gioco della ripetitività all’infinito. Mentre l’ondata degli efebici e disimpegnati new-romantics, cominciava ad attenuarsi, il new-cool rappresentò un’esigenza dello spirito, più che del corpo, una richiamo alla musica d’ascolto dai tratti eleganti e ricercati, capace di fare innumerevoli adepti tra musicisti, critici e fruitori a vario titolo; fu l’autentica riscoperta di un sound che, fosse ricevibile dul mercato, ma «lentamente» sofisticato, capace di dilettare la mente, accarezzare l’anima e contemplare il gusto di palati esigenti, non solo di vellicare i bassi istinti danzerecci o istigare alla rivolta sociale e alla distruzione anarchica (come il punk), annullando le capacità critiche e selettive dell’uditorio dopo averlo trasformato in una massa amorfa ed automatizzata.

II new cool offrì una semplice e naturale risposta a queste esigenze: la sua componente jazzistica, soprattutto nell’utilizzo del piano acustico, del contrabbasso e della sezione fiati funkified, gli conferiva l’apertura verso una dimensione musicale più borghese, ma, al tempo stesso, facilmente metabolizzabile. Il sodalizio con un metodo compositivo di tipo poppish, insieme alla relativa riscoperta degli strumenti acustici e l’abbandono, quasi totale, di computer, sequencer e sintetizzatori, gli conferiva un calore viscerale e profondo, in linea con una sensibilità lirica più umana e consona ai tempi, sempre più lontani dall’antagonismo degli anni Settanta. Molto si deve invece all’affermazione della musica fusion, che operava su vari livelli. La fusion aveva agevolato il confluire di validi strumentisti jazz, perfino in ambito dance, nobilitato il rock ed il funk ed, al contempo, aveva permesso a tanti musicisti di estrazione jazz di tornare ad assere fruibile presso il vasto pubblico della musica leggera e graditi allo sterminato popolo delle notti in discoteca.

Cosi facendo, la fusion preparò, inconsapevolmente, il terreno all’affermarsi di un jazz più smooth e comunicativo, inglobando taluni enzimi tipici dl pop di largo consumo. Al contrario della fusion, negli ambienti del new-cool furono i musicisti pop e bianchi a dilatare la loro esperienza verso i lidi jazzistici. Nonostante gli integralisti del jazz puro e del rock tradizionale ebbero a storcere la bocca, la fusion e il new-cool più raffinato, combinati insieme, divennero due ottimi fluidificanti per rendere il jazz nuovamente commestibile, sia pure al prezzo scontato di una contaminazione con con taluni generi musicali da movida cittadina e da emporio alla moda. Per essere prosaici, aggiungiamo, che parecchi musicisti di scuola jazz non disdegnarono di vedere il proprio conto in banca notevolmente rimpinguato. A parte i soliti noti, tra i pionieri del new-cool, ossia coloro che prepararono il consolidarsi del fenomeno, vanno ricordati alcuni artisti, sovente misconosciuti, ma decisamente esemplificativi. Il primo di essi è Nick Drake, musicista inglese, morto a soli ventisei anni nel 1974. Drake proveniva dagli ambienti del folk acustico: la sua intuizione fu appunto quella di fondere le scarne folk-ballads con un virtuosismo jazzistico assai elegante ad ampio spettro. Soprattutto il suo secondo album, «Bryter Later», con un’eterea miscellanea di chitarre acustiche, piano jazz, flauti e sassofoni deve essere considerato un piccolo classico ante-litteram. Sulla scia di Drake, altri musicisti provenienti dal folk acustico, realizzarono dischi considerevoli, operando una fusione con climi jazz, perfettamente in linea con lo stile del new-cool: stiamo parlando di John Martyn in Inghilterra, e del duo di Mark & Almond negli Stati Uniti: il primo proveniva dal folk-rock del giro del Fairport Convention, i secondi dall’entourage del Bluesbreakers di John Mayall. Da notare che lo stesso Mayall fu autore, a meta degli anni Settanta di un album visionario e predittivo, intitolato «Jazz-Blues Fusion», che non venne assolutamente capito, anzi fu interpretato come una sorta di delirante capriccio creativo da parte di un’artista che aveva più nobili ascendenze.

Ancor prima di Nick Drake, sempre in terra d’Albione, era attiva una formazione atipica, i Pentangle: alcuni del suoi membri provenivano dal folk, altri dal jazz. Gli album «Sweet Child» o «Reflections», non avevano nulla da invidiare ai lavori di un Joe Jackson o alle punte di diamante più sofisticate del repertorio di Sade. Perfino gli attivissimi Manhattan Transfer, fin dalla seconda meta degli anni Settanta, erano stati dei veri e propri antesignani del genere, nell’accezione più ampia del termine, basti pensare ai Matt Bianco. Soprattutto nei loro i primissimi lavori come «Coming Out» o «Pastiche» sono insite le prime avvisaglie di quello che sarebbe stati in seguito i tratti salienti del new-cool. Perfino l’incontro di Joni Mitchell con il jazz di Mingus, e quello meno cerebrale del doppio live «Miles Of Aisles», non va sottovalutato nell’identificazione degli antesignani. Gli Steely Dan soprattutto con «Gaucho», l’ultimo album prima dello scioglimento e l’esordio da solista di Donald Fagen, «The Nightfly», si inseriscono senza tema di smentita in questo percorso a ritroso, alla ricerca alle radici del new-cool. Il punto di sutura definitivo, tra il passato e l’avvento del fenomeno, potrebbe essere identificato nella svolta di Joe Jackson: da campione dell’hard-wave a prodigioso esponente di un jazz melodico e raffinatissimo, che pur non entrando compiutamente nell’ottica del new-cool, si mostrò affine se non altro nell’intenzione, nelle regole d’ingaggio e nella modalità dei percorsi investigativi.

Tra gli altri, va citato Michael Franks che, soprattutto a partire dall’album «Skin Dive», potrebbe essere, meritoriamente, iscritto nell’albo d’oro dei progenitori del cool-jazz. Se molti progenitori del movimento sono rintracciabili anche negli Stati Uniti, non bisogna dimenticare, pero, che il new-cool nacque e si sviluppò essenzialmente in Inghilterra, sia pure con un occhio rivolto oltreoceano. Le matrici jazz vennero rielaborate dai nuovi gruppi della cool-generation in contesti ispirativi e di humus tipicamente europeo, mutuati spesso dal rock e derivati, da cui provengono alcune tra le cool-bands piu significative. Un ottimo esempio a sostegno delle nostre tesi fu confermato dagli Style Council progetto nato per volontà del cantante-chitarrista Paul Weller, ex-leader dei Jam, la mod-band per antonomasia, importante sia dal punto di vista politico che sotto il profilo strettamente musicale. Dopo aver voltato decisamente pagina, Weller riuscì a ricostruirsi una nuova credibilità artistica, superando le prime perplessità suscitate dal suo drastico cambio di rotta. In tandem con Mick Talbot, ex-Merton Parkas e Dexy’s Midnight Runners, molto abile soprattutto nell’uso di strumenti tradizionali come il pianoforte e l’organo Hammond, diede vita ad un jazz-soul dal sapore antico, ma dai contenuti attuali ed estremamente pungenti. La prima testimonianza lasciata su vinile dagli Style Council fu un corposo singolo uscito del marzo ’83, «Speak Like A Child», seguito nello stesso anno da un altro 45 giri «Money Go Round», un EP molto raffinato, «A Paris», registrato interamente nella capitale francese, fonte d’ispirazione per le atmosfere musicali sviluppate del duo autorale. Seguirono un EP di presentazione ufficiale «Introducing The Style Council» ed un ennesimo singolo, «A Solid Bound In Your Heart». All’inizio dell’84, diedero finalmente alle stampe il primo vero allbum, «Cafe Bleu», un disco fitto di variegate situazioni sonore, ma tacciato dai soliti bacchettoni di eccessivo eclettismo. L’album mescolava in maniera non sempre organica, ma voluta, accenti musicali che spaziavano dal jazz al soul, dal R&B al funk ossessivo e venato di groove taglienti e di atmosfere piuttosto blackness, mentre successivo «Our Favourite Shop» fu un passo in avanti verso la maturazione, che si consolidava attraverso sonorità più lineari, coese ed omogenee. Tra tutti i solchi, spiccava in modo particolare il singolo «Wails Come Tumbling Down», un esempio illuminante di come si potesse conciliare un certo impegno sociale con i primi posti delle classifiche e l’airplay radiofonico. In perfetta sintonia con la volontà di Paul Weller di mantenere sempre un certo impegno politico va segnalato anche il singolo da lui realizzato insieme al sodale Mick Talbot e ad altri artisti soul-dance, quali Junior e D. C. Lee , riuniti sotto il nome di Council Collective. I proventi di «Soul Deep», basato su un costrutto ritmico-armonico intenso e trascinante, vennero devoluti alle famiglie dei minatori inglesi in sciopero.

Simon Booth, chitarrista e membro fondatore di un altro gruppo di punta del new-cool, i Working Week, proveniva dagli ambienti rock-blues. II suo interesse per il jazz di Charlie Mingus, Art Pepper, Stan Getz e John Coltrane si era sviluppato durante il periodo di lavoro come commesso in un negozio di dischi, unitamente ad una passione mai sopita per la musica latina, in particolare quella brasiliana di Joao Gilberto. Da allora, Booth cominciò a suonare in vari club diventando in seguito il leader dei Weekend. Proprio durante un fine settimana il chitarrista incontrò un valente sassofonista jazz reduce da una decennale collaborazione con Keith Tippet e Tony Oxley, insieme al quale decise di dare vita ad una band in grado di mettere sotto un comune denominatore tutte le loro passioni musicali. Il nome scelto, complementare a Weekend, fu Working Week (settimana lavorativa) e ben si adattava all’infaticabile attività svolta dal gruppo a partire dal 1983, attraverso straordinari concerti con piccole orchestre di oltre dieci elementi e registrazioni di ottimi single con la partecipazione di ospiti di lusso, ad esmpio, «Venceremos» con Robert Wyatt, Tracey Thorn, Claudia Figueroa e «Storm Of Light». Il sound dei Working Week pagava evidenti tributi al jazz acustico come al soul, nonché ai ritmi latini, ma risultava nel complesso originale e trascinante, basandosi su strutture semplici, immediate e contagiose, condite da arrangiamenti raffinati e partiture strumentali piuttosto impegnative. L’ensemble trovò il break-even-point solo con l”ingresso in pianta stabile nell’organico di Julie Roberts, cantante di colore dall’ugola al fulmicotone ed ex-campionessa britannica di nuoto, che favorì la realizzazione dell’album d’esordio, «Working Nights». Altri gruppi come Animal Nightlife e Curiosity Killed The Cat privilegiarono un impianto sonoro più funk con intarsi latini e venature di swing, ma soprattutto con l’intento di avvicinarsi alle piste da ballo.

Contrassegno saliente del new-cool degli anni ’80 fu la presenza di splendide vocalist, non solo di colore. In effetti, buona parte delle formazione ascrivibili al genere fecero affidamento sulle qualità vocali di cantanti donne. Tra queste, una signora di tutto rispetto nell’estensione vocale fu Tracey Thorn, elemento base, insieme al chitarrista-compositore Ben Watt, degli Everything But The Girl. Un nome che s’inserì di prepotenza (anche dal punto di vista dei risvolti mercantili) nel panorama cool con un etereo album di debutto, «Eden», tutto intriso di atmosfere languidamente jazzate e retto in prevalenza dall’ugola di velluto della Thorn, insuperabile nell’hit-single «Each And Every One». In realtà gli Everything But The Girl si staccarono presto dal genere, tentando altre commistioni, già a partire dal secondo album, «Love Not Money», musicalmente più scarno ed essenziale, per approdare, negli anni successivi, ad una dance raffinata e vicina alle atmosfere pre-house.

La componente più disimpegnata e leggiadra, più easy-listening, di quella che potremmo definire l’armata britannica, venne rappresentata dai Matt Bianco: una formazione di tre elementi (Mark Reilly, voce e Danny White, tastiere, entrambi ex-componenti dei Blue Rondò A La Turk, con I’aggiunta di una vocalist dal nome d’arte impronunciabile, Basia Trzetrzelewska, all’anagrafe Barbara Hook), che si allacciò con gusto felliniano, quasi fumettistico, all’italian-style, sia nel modo di vestire che nel recupero di certe ritmiche da balera anni ’50 e ’60: dallo swing al cha-cha-cha, rivedute e corrette da intraprendenti soluzioni ritmiche e strumentali. La loro musica comunque, pur non scendendo in profondità, si presentava ariosa e godibilissima, non priva di una certa classe negli impasti vocali e negli interventi solistici di alcuni strumenti tradizionali del jazz: pianoforte e sax baritono su tutti, come dimostrarono i numerosi singoli estratti l’album «Whose Side Are You On». Sempre a proposito di cantanti donne dell’ondata cool, merita almeno una menzione un personaggio come Carmel che nell’album «The Drum Is Everything» riuscì a fondere, tramite le sue portentose interpretazioni, la rabbia del punk e la grinta del rhythm’n’rlues con le ruvide inflessioni melodiche dell’ultima Billie Holiday. Proprio Billie Holiday, legata a certe atmosfere sofferenti e levigate, divenne inevitabilmente il punto di riferimento più immediato delle più accreditate cool-singers, tra le quali possiamo annoverare Alison Moyet, la più bella voce nera, fra le cantanti di pelle chiara di quegli anni, insieme ad Annie Lennox e di Sarah Jane Morris. Con l’album «Alf» la Moyet si liberò dalle pastoie elettroniche dei suoi precedenti lavori solistici e con gli Yazoo per interpretare con classe sopraffina, una rovente ballata della Holiday, «That Old Devil Called Love». Ancora ispirata dall’ugola di Billie Holiday, balzava agli onori della cronaca un’anglo-nigeriana di nome Sade Adu, foriera, insieme al suo gruppo denominato Sade, di un fortunato disco d’esordio, «Diamond Life», che scalò rapidamente le charts di tutto il mondo e da cui vennero tratti singoli plurimilionari come «Smooth Operator» e «Your Love Is King». Ex-top model e cantante della funky band inglese Pride, la venticinquenne Sade conquistò critica e pubblico sin dalle sue prime apparizioni sulla scena musicale londinese, grazie a una seducente presenza scenica e ad una vocalità di seta trapuntata di velluto. Con il sostegno del sassofonista Stewart Matthewman, che diventò elemento caratterizzante delle sue canzoni, Sade Adu diede alle stampe altri album di minore impatto commerciale, ma di forte intensità interpretativa e compositiva, prodotti dall’immancabile Robin Millar. Fu proprio questa specie di demiurgo dalla mente aperta che, da dietro le quinte, resse le fila di altre due tra le formazioni citate, ossia Working Week ed Everything But The Girl. La sua proverbiale abilità direttiva in sala d’incisione fu davvero lungimirante.

Purtroppo la stagione del new-cool non fu molto lunga e nel giro di qualche anno, gli artisti passati in rassegna dovettero cedere il passo ad altre tendenze e ad altri stili all’interno di una realtà musicale in perenne divenire. Va sottolineato che il ritrovato interesse per una dance morbida, cadenzata ed elegante spianò il terreno, in particolare in Inghilterra, all’house-garage: senza Sade Adu, Julie Roberts e Tracey Thorn, forse, non ci sarebbero stati personaggi come Lisa Stansfield. Ma questa è un’altra storia.

Style Council