// di Bounty Miller //

Courtney Pine – «Journey To The Urge Within», 1986)

Per inquadrare bene Courtney Pine, bisogna fare riferimento alle sue origini e alla sua non facile vita, soprattutto da ragazzo. Pur avendo raggiunto un livello tecnico ed espressivo, pari a quello di molti colleghi statunitensi di vecchia e nuova generazione, Courtney non è americano, ma inglese di origine giamaicana, dettaglio non trascurabile. Nato a Londra nel 1964, i suoi genitori erano due immigrati dalle colonie nella vecchia Albione. Keith, falegname, e Violet, impiegata in un ente locale, erano arrivati dalla Giamaica negli anni ’50. Suo padre suonava ska con un vecchio giradischi nella stanza di fronte, e quella fu l’unica musica che il piccolo Courtney ascoltò in casa. «Ho fatto tutto la mia esperienza per strada», dice Pine. «C’era sempre musica là fuori: africana, caraibica, domenicana, baiana, giamaicana e cubana. C’era una tale mescolanza di stili, che mi dava l’energia per crescere».

Appena quattordicenne, si trasferì con la famiglia a Kingsbury, nel Nord-Ovest di Londra, dove strinse amicizia con Frank Tontoh, figlio del leader degli Osibisa. Pine ricorda il suo mentore con un timore reverenziale: «Mac Tontoh, in una luccicante rossa Lancer con pantaloni di pelle, era la superstar nera, era il nostro Shaft, suonava la tromba, ascoltava dischi jazz e ci portava in studio. Fu davvero importante ascoltare gli anziani, le persone che potevano indicarti delle scorciatoie: è ciò che Mac fece con me, se non fosse stato per lui, non sarei diventato un musicista». A scuola Pine studiò il clarinetto classico, imparando a suonare il sassofono intorno ai quindici anni, ma al contempo era attratto dai coetanei che seguivano il soul, il funk e il reggae con i vari sistemi audio che, come intrattenimento, rappresentavano altrettanti centri sociali nevralgici per la mobilitazione della gioventù nera. Il suo amore per il jazz non fu di certo incoraggiato, soprattutto dai bianchi che lo circondavano. Racconta Courtney: «Aggiungevo diverse note nella scala come faceva Sonny Rollins e la gente mi diceva, no, non vogliamo questa musica, non c’interessa». Non sempre gli interlocutori erano gentili, continua Pine: «Sei nero e vuoi anche suonare il jazz in questo paese, è meglio che tu vada a vivere da qualche altra parte!».

La svolta avvenne in un pomeriggio passato davanti alla TV, ascoltando Wynton Marsalis, Courtney ebbe una specie di folgorazione. La professionalità e il dinamismo di Wynton furono una rivelazione: «Marsalis era giovane, quindi se lui riusciva a portare il jazz ad un vasto pubblico, di certo avrei potuto riuscirci anch’io». Un periodo di intense letture e approfondito studio dello strumento diedero i loro frutti. Presto Courtney fu ospite dei Jazz Messengers di Art Blakey e della Big Band di Charlie Watts. La Island Records ebbe un ottimo intuito, sostenendo il suo debutto discografico nel 1986 con un album dalla struttura hard bop, «Journey To The Urge Within», che entrò nella Top 40 del Regno Unito. Per paradosso, l’inaspettato album di Pine condivideva la classifica, contendendo posizioni a «Tutu» di Miles Davis, il quale aveva da poco scritto nella sua autobiografia che il jazz degli anni ’80 stava diventando «una musica da museo». Per contro, Courtney Pine fu colui che di più di ogni altro, in Gran Bretagna, si prodigò per invertire questa tendenza, tanto da essere insignito dell’OBE (Order of the British Empire), un’alta onorificenza, «per i servizi resi alla musica jazz».

Nel 1986, al momento della registrazione del primo album, «Journey To The Urge Within», il sassofonista tenore aveva solo 22 anni e portò con sé in studio alcuni dei più promettenti musicisti jazz della scena black inglese di quel periodo: la cantante Cleveland Watkiss (che spesso con i vocalizzi ricorda Bobby McFerrin), il vibrafonista Orphy Robinson e il pianista Julian Joseph. Il disco ebbe molto successo, anche se la maggior parte di questi gregari non aveva ancora raggiunto un vero potenziale espressivo. Lo stesso Pine, pur già molto esperto, non riescì a liberarsi del fantasma di Coltrane, di cui sembra invasato. Facendo un test al buio, in alcuni frangenti, si potrebbe davvero pensare che sia Trane a suonare. Pine elabora armonie in serie girovagando su assoli lunghi e ruzzolanti, cercando l’intensità adamantina di John Coltrane e dimostrando di essere un perfetto proselite del genio del clarinetto basso Eric Dolphy.

A parte alcuni episodi divaganti, la quota di jazz acustico viene assicurata, spaziando fra lussureggianti ballate e momenti di tempestoso post-bop, interpretato da una band giovane, ma con i nervi saldi. Ottimi i brani originali, composti da Courtney Pine, che emettono emozioni ad ampio spettro, sostenute da un ottimo groove. Il talento di Courtney era una questione di contesto. La sua visione musicale nasceva da un imprinting sonoro diversificato, sviluppato dall’assorbimento di elementi di reggae, afro, soul, funk, sebbene il suo sforzo maggiore fu quello di focalizzarsi principalmente su un formato acustico. Il tentativo fu quello di distillare jazz in purezza seguendo l’insegnamento ideale di Wynton Marsalis. Così Courtney, sulla scia di Wynton, divenne l’artista jazz più popolare e influente in Gran Bretagna. «Journey To The Urge Within», fu il primo album jazz ad entrare nella top 40 pop chart UK, vendendo più di 120.000 copie, non tante per una rock-band o una pop-star, ma una cifra invidiabile nel contesto del moderno jazz britannico. Per curiosità storica, diciamo, che anche in America, nella media, molti dei più importanti dischi jazz si sono sempre attestati fra le 60.000 e le 100.000 copie vendute, fatta eccezione per alcuni best-seller di Miles Davis e John Coltrane.

Courtney Pine – «The Vision’s Tale», 1989

Con il successivo album del 1988, «Destiny’s Songs», Pine assapora nuovamente il successo della classifica pop, ma siamo ancora in una fase interlocutoria e di compromesso. Finalmente con «The Vision’s Tale» del 1989 arriva un album di jazz in purezza. Un lavoro acustico al 100% che guarda alla tradizione. L’esuberanza giovanile ed imitativa, che lo aveva portato ad amare Sonny Rollins e John Coltrane, si attenua. A 26 anni, il giovane anglo-giamaicano sembra essere sulla strada per qualificarsi come uno dei migliori sassofonisti jazz di ogni epoca. «The Vision’s Tale» fu un nuovo punto di partenza per Pine, che spesso mostra uno stile aggressivo ed estroverso, mentre talvolta appare eccessivamente rispettoso degli standard che interpreta.

Il disco, nella sua totalità, risulta lineare ed equilibrato, scorrevole e piacevolissimo all’ascolto. Parte del merito è dovuto alla presenza dell’attempato pianista Ellis Marsalis, padre di Wynton, che dirige un trio composto dal bassista Delbert Felix e dal batterista Jeff Watts, mente il trombonista Delfeayo Marsalis appare in veste di produttore. Le fughe improvvisative di Courtney sono limitate alla melodia con lievi variazioni tematiche su alcune tracce, tra cui «In a Mellow Tone», che riporta alla mente il Sonny Rollins di «Way Out West», il primo vero disco jazz amato dal Courtney studente, «Skylark», che rimanda talune cupe ballate alla Wayne Shorter e «God Bless the Child», che mostra un andamento duale con momenti in agro-dolce e innesti a variazione sul tema davvero geniali. In alcuni frangenti appare più distaccato ed i suoi assoli sono molto più brevi del solito, forse per non primeggiare troppo sul resto della band. I momenti più riusciti dell’album, grazie alle incursioni di Pine, in entrambi tenore e soprano, sono «A Raggamuffin’s Stance», «I’m An Old Cowhand From The Rio Grande» che riportano alla mente il tempestoso Coltrane di «Giant Steps».

Con questi due album Pine avviò la rinascita del jazz inglese degli anni ’80, così come era accaduto in America con Wynton Marsalis, diventando un catalizzatore e un’icona per molti giovani musicisti jazz britannici neri, ampliando l’appeal della musica per una nuova generazione, in parte attraverso una controversa fusione di jazz acustico con altre forme espressive, soprattutto negli anni a venire. Secondo John Cumming, regista del London Jazz Festival, parte della sfida e del successo di Pine nasce dal fatto che «non si è fermato di fronte a nessuna difficoltà: in tutta la storia del jazz non c’era mai stata un tale resistenza nei confronti di un nuovo fermento musicale, perfino la reazione al bebop, a Charlie Parker e Dizzy Gillespie, negli anni ’40, era stata probabilmente meno severa di quella affrontata da Courtney».

È indubbio, che la prima fase della rivoluzione innescata da Courtney Pine vada ricercata in questi suoi primi lavori, in particolare in «The Vision’s Tale» del 1989. Per il bassista Gary Crosby, Pine è stato «importantissimo nel creare un volto più multirazziale per il jazz britannico», mentre il chitarrista Cameron Pierre, amico e collaboratore di lunga data di Pine, affermava che «i giovani musicisti di colore lo ammirassero per quello che aveva ottenuto in un clima difficile, dove i neri dovevano lavorare il doppio per avere successo». Pine ha stimolato non solo i suoi contemporanei, ma anche una crescente generazione di artisti jazz, tra cui i sassofonisti Denys Baptiste, Jason Yarde e Soweto Kinch, il pianista Alex Wilson e la cantante Julie Dexter. «Viene ancora crocifisso in certi ambienti per invidia», aggiunge Pierre, «ma molti mangiano per merito di Courtney. In quegli anni, il jazz in questo paese era morto e sepolto, era una cosa vecchia, borghese e suonata da pochi uomini bianchi di mezza età. Da allora, molti più giovani vanno a concerti jazz, e questo dipende dall’opera svolta da Courtney Pine negli anni».

Courtney Pine