// di Francesco Cataldo Verrina //

Quando Keith Jarrett realizzò la più lunga improvvisazione para-jazz della storia con «The Köln Concert», molti scrissero che il pianista aveva messo insieme una serie di frammenti e di reminiscenze provenienti dai quattro punti cardinali della musica, indicando una via di demarcazione per tutto quello che sarebbe stato il pianismo jazz post-moderno, o sedicente tale, a prescindere dalla tecnica esecutiva praticata dalle generazioni a venire o dallo specifico modello di riferimento. Il tentativo, progressivamente riuscito del pianista americano, fu quello di demolire le barriere architettoniche tra i diversi linguaggi espressivi praticati dai jazzisti, e non solo, specie in quello scorcio di anni Settanta. Lo stesso Jarrett continuò a perpetuare la sua formula liturgica soprattutto nella dimensione piano trio, da cui sono scaturiti alcuni dei più riusciti album di jazz contemporaneo. Per dirla in soldoni, Jarrett tentò di unire più mondi possibili, almeno due: quella della musica di derivazione eurocolta e quella del jazz di matrice africano-americana, di cui era stato protagonista nella prima parte della sua carriera.

«Two Worlds», il nuovo disco di Antonio Artese, edito dalla Abeat Records, nasce nella classica tridimensione pianistica ed è un valido tentativo di ricongiungere sotto un minimo denominatore elementi tipici del vernacolo jazzistico con residui provenienti dalla tradizione armonica eurocolta, trovando un break-even-point, un punto di pareggio, in un equilibrio geneticamente instabile tra due mondi che, in natura, sembrerebbero più scontrarsi che incontrarsi. Il titolare dell’impresa si racconta così: «L’idea di «Two Worlds» nasce a Santa Barbara in California, in occasione di un concerto con il mio West Coast Trio, allo storico Lobero Theater, nella data palindroma del 22-2-2022. I due mondi sono quelli che ho frequentato sin dagli inizi della mia formazione musicale: l’amore per il jazz e la musica classica, l’improvvisazione e la composizione, la cultura italiana e quella degli Stati Uniti, e della California in particolare, dove ho vissuto a lungo». In verità, Artese è un’anima divisa in due, una sorta di cuspide che si colloca a cavallo di due segni distintivi ed assai marcati, difficili da conciliare se non si possiede la preparazione adatta, la voglia di sfidare alcune forze gravitazionali ed un minimo di spregiudicatezza: ed ecco che sullo sfondo appare anche il fantasma di Bill Evans, altro storico conciliatore, con regole d’ingaggio differenti rispetto a Jarrett, e giudice di pace fra due mondi lontani per estrazione e per definizione.

Artese, però, non è Keith Jarrett e neppure Bill Evans. Absit iniuria verbis, il mio assunto non si riferisce all’importanza o meno, o alle capacità tecniche dei tre attanti in questione, ma al semplice fatto che Antonio Artese è un musicista alquanto strutturato e condizionato soprattutto da sé stesso e dal suo desiderio di sviluppare intorno a sé la magia della confluenza di stili e linguaggi, come fanno tutti coloro che scelgono la modalità piano trio ed hanno un background classico-accademico. Il pianista molisano, sostenuto da Stefano Battaglia al contrabbasso ed Alessandro Marzi alla batteria, ci riesce bene, colpendo il punto di rottura e di apertura di due linguaggi che di base operano sullo stesso territorio armonico, anche se con qualche dispersione di troppo, che a tratti s’invola verso le terre nel nord Europa, mentre in altri frangenti s’inabissa nelle acque del Mediterraneo. Così si accontentano tutti, ma nel jazz, talvolta è meglio andare per sottrazione. Ovviamente non c’è ostentazione, tuttologia dell’estetica e neppure eccesso di zelo: il costrutto sonoro nel suo insieme è piuttosto equilibrato.

Artese descrive la sua creatura così: «L’album è una collezione di sette composizioni originali e due arrangiamenti che vogliono rappresentare la riconciliazione e il superamento di questi apparenti dualismi. La scrittura, concepita per il trio acustico con pianoforte, si ispira ora al trio evansiano ora al minimalismo nordeuropeo. La palette armonica e timbrica da cui attingo è il frutto di viaggi, contaminazioni e frequentazioni musicali eclettiche. Una vera e propria stratigrafia musicale accumulata durante gli anni, dove frammenti melodici, contesti armonici e cellule ritmiche del trio vengono, di volta in volta, ripensati e rivisti da angolazioni diverse». La tracklist si sostanzia, dunque, attraverso nove componimenti, di cui sette farina del sacco che Artese porta dal suo mulino creativo, mentre «Lila», una tradizionale ninna nanna ucraina e «Un Bel Dì», celeberrima aria della Madama Butterfly di Giacomo Puccini, sono arrangiati del pianista in maniera del tutto personale. Le cover marcano due territori bel precisi: la tendenza del pianismo italiano di guardare verso l’Est ed i Balacani e l’esigenza di caratterizzarsi come melodico-mediterranei, legati alla terra del bel canto. Ciò che manca però – lo dico da Grillo Parlante – è un piccolo tributo alla vera tradizione pianistica nero-americana, che in genere fa di un disco qualsiasi, un vero disco jazz, a prescindere. La composizione e la formula esecutiva di Artese segue delle coordinate ben precise, con forti influenze cameristiche, creando una musica elegante e ricca di delicati cromatismi. Fra le tracce svettano per originalità l’opener, nonché brano eponimo «Two Worlds», dalla narrazione quasi cinematografica fitta di colpi di scena e cambi armonici, «Icarus» per l’ottimo interplay e la collegialità del trio e «Voyage» per le dinamiche del tema melodico ricco di contrafforti lirici e ben implementato dalla retroguardia ritmica. Nel complesso «Two Worlds» dell’Antonio Artese Trio è un’onda benefica dal mood quasi ambient.

Antonio Artese