// di Irma Sanders //

Faccio una premessa importante, al fine di non essere fraintesa e scambiata per una semplice lettrice di rotocalchi o una populista che non ama il separatismo ed il verticalismo sociale all’interno di ogni forma di espressione artistica: essere intenditori di musica non riguarda il ceto o il censo delle persone. Anzi, spesso, in certe «materie frutto dell’ingegno umano», l’ignoranza è direttamente proporzionale al livello di reddito. Sono nata nella Germania dell’Est, all’epoca studiare musica classica era una scelta obbligata e, nel mio caso, forzata: cinque anni di violino al conservatorio. In casa mia tutti suonavano uno strumento, che, in quella Germania retrograda ed oppressiva, rappresentava uno dei pochi mezzi per emergere e non essere solo un numero in mano ad un partito. Da adolescente, cominciai ad essere insofferente alla musica classica, soprattutto per l’atteggiamento di superiorità di chi la praticava o la frequentava: in massima parte, i miei coetanei del conservatorio erano di una noia cimiteriale. Di nascosto dai miei genitori, mentre frequentavo le scuole superiori, inizia a suonare la chitarra elettrica con un rock band, quasi in semi-clandestinità. All’università, dove studiavo lingue straniere, italiano e inglese, con obbligo del russo, cominciai a praticare il contrabbasso in un gruppo di jazz sperimentale, attività che mi permise di conoscere il mio futuro marito americano, che lavorava presso l’ambasciata USA e mi prestava molti dischi jazz, difficili da reperire al di qua della Cortina di Ferro. Alla fine degli anni Ottanta mi sono trasferita in Italia. La cosa più difficile per me fu capire il rapporto superficiale che gli Italiani avevano ed hanno con la musica in generale, dove tutto diventa forma ed apparenza, passando dagli eccessi della Scala di Milano a quelli del Festival di Sanremo. Ho sempre immaginato una prima della Scala con una Big Band Jazz alla Duke Ellington e un programma stagionale misto: classica, jazz e rock d’autore. La «prima», per paradosso o come provocazione, la riserverei solo a studenti e docenti di musica nei conservatori italiani, musicisti, musicologi e critici d’arte a vario titolo, lasciando a casa gli ermellini, le pantere dell’alta moda, i lustrini, i tacchi alti e i castori d’acqua dolce, soprattutto i politici della prima volta e da una botta e via.

Qualche giorno addietro è accaduto che secondo alcuni critici inamidati, il «Natale della Scala» con la Missa «In tempore belli» di Haydn sarebbe stato rovinato dal un pubblico chiassoso e sui generis. Il 24 dicembre Alberto Mattioli, sul quotidiano La Stampa, ha scritto: «Ci sono molti modi per rovinare un concerto. L’eccesso di entusiasmo del pubblico è così insolito che diventa una notizia. Eppure, è quel che è successo giovedì al Concerto di Natale della Scala, affollata da gente overdressed che non solo evidentemente ci entrava per la prima volta, ma per la prima volta ascoltava un concerto «classico». Molti erano ospiti di un noto brand del lusso, ennesima conferma che, se i soldi forse non garantiscono la felicità, sicuramente non insegnano l’educazione. Fatto sta che gli sventurati si sono messi ad applaudire freneticamente dopo ogni movimento della Sorpresa di Haydn (la Sinfonia numero 94) e, peggio, a ogni pausa della sua Missa «In tempore belli». Distruggendo così ogni possibilità di concentrazione e innervosendo gli esecutori. Inutile cercare di farli stare zitti: anzi, l’americana che avevo accanto ha protestato alle mie proteste, e non si è placata nemmeno quando le ho fatto presente che non eravamo allo stadio del baseball».

Gli fa eco lo studioso e musicologo Gianni Morelenbaum Gualberto, mente elastica e con una visione molto più ampia del concetto di «fruizione della musica». GMG, sul suo profilo FaceBook, sostiene: Ma sì, certo tipo di «Galateo» è più che rispettabile, teoricamente dovrebbe aiutare a capire meglio, a disporsi meglio nei confronti dell’ascolto della «complessità» (si sa, altre musiche non eurocentriche non sono complesse e non meritano attenzione o concentrazione: in realtà meritano altrettanto, ma tengono anche alla partecipazione collettiva e non si dannano per certe ingenuità).

Il critico della Stampa, Alberto Mattioli, conosciuto come persona assai ammodo e competente, appartiene purtroppo a un club in cui ci si picca di costituire un’élite d’antan: tabarro, linguaggio artificiosamente forbito (un italiano clericale e notarile che sostituisce il «latinorum» di un tempo), prosa vezzosa da «come si stava bene a Varsavia con Radetzky», aria alquanto sdegnosa nei confronti di un’epoca contemporanea non abbastanza aristocratica, pretese letterarie, irritazione per la plebe che usa il demotico e che si avvicina spudoratamente alle intoccabili vacche sacre: le sale da concerto, per questi curiosi Balilla di buona sartoria, dovrebbero essere vuote o frequentate solo da eletti che si conoscono fra di loro e che possono giurare sulla verginità delle loro o altrui mamme all’atto del concepimento nonché sul pedigree dell’intera famigliuola. Pronti a lagnarsi se il proletariato non entra nei sacri recinti, ma schifati se poi, a mo’ di Attila secondo Abatantuono, ha il coraggio di entrare quando essi sono presenti.

Insomma, il fatto grave: gli Unni neofiti entrano nel sacro luogo e, cosa ancora peggiore, non in punta di piedi, a digiuno e con la cenere sulla testa, ma persino entusiasti (cosa peraltro encomiabile, vista la solita programmazione ammuffita). Orrore incommensurabile: non frenano il loro entusiasmo e, incuranti di ogni pericolo, osano persino sedersi accanto a Mattioli, un’americana per di più (si sa che gli statunitensi non devono osare appoggiare le loro terga da cowboy e cowgirl sulle poltrone scaligera, laddove in precedenza si sono magari seduti intellettuali di rango della vezzosa borghesia milanese, muniti di portafoglio sufficientemente capiente per farsi rispettare, anche se analfabeti, da tre quarti dei giornalisti musicali del Paese). Peggio, senza neanche mai avere fatto neanche un annetto di sensibilizzazione spirituale, che so, alla Scuola Holden, disturbano la sacra concentrazione del critico, perso a contare il numero dei movimenti di una sinfonia di Haydn. Nonostante ciò non gli abbia impedito, da vero eroe, di scrivere la sua recensione: miracoli della concentrazione intellettuale.

Certo, è vero, la Scala è il «tempio», ancorché della programmazione vetusta sua e della Filarmonica. Già il fatto di chiamarlo «tempio» non sta a significare chissà quale rispetto per l’arte, ma per il gruppetto di intabarrati che si radunano nel ridotto per scambiarsi sorrisi d’intesa o comuni indignazioni, che si conoscono senza neanche annusarsi il sedere, che si «arrisottano» alle prime, che fanno da Virgilio alle nuove, scodinzolanti leve con un sorriso di amabile superiorità. Il mondo è bello perché è vario come l’arca di Noè, placet. Ciononostante, un minimo di contegno bisogna pur averlo in certi luoghi deputati al godimento della conoscenza. Ci si chiede perciò chissà cosa abbiano combinato alla Scala Odoacre e gli Eruli: orrore, orrore, come bambini innocenti hanno espresso troppo entusiasmo per Haydn e gli interpreti, applaudendo alla fine di ogni movimento e, soprattutto, disturbando con l’indegna gazzarra la suprema concentrazione di Mattioli, ormai sconvolto e privo dell’olimpica atarassia abituale, incapace di gustare nella canea il supremo equilibrio della forma haydniana.

Come annotava Stendhal: «so’ cazzi». Addirittura, l’americana sfortunata, capitata accanto al Mattioli furioso, non solo pare esprimesse il suo entusiasmo come a una partita di baseball ma, incurante delle proteste del Cavaliere Intabarrato, pare pure che gli abbia in qualche modo esibito il dito medio. Ribadisco, certo il Galateo non scritto o scritto prevede che…, ecc. ecc., a ragione. Ma è raro trovare oggi chi si meravigli di fronte ad Haydn e lo apprezzi senza tante mediazioni. Bisognerebbe essere ben lieti che in un luogo sepolcrale, dove da decenni si sotterrano musica e cultura nella noia e nella banalità rugosa, siano giunte persone guidate da poche sovrastrutture. Hanno sbagliato? Sicuramente. Ma, come dire, “impareranno” a gustare nello stesso silenzio in cui Mattioli intendeva radiografare il fantasma lacaniano di Haydn. Disprezzarli e ammonirli è impresa demenziale: il pubblico cresce, matura e, si spera, aumenta. Le sale da concerto non possono diventare, come già sono, riserve indiane a rovescio, dove matrone arricchite, finanzieri non meno cafoni di Odoacre, critici veri e presunti, magnati, banchieri, intellettuali di risulta si chiudono per non doversi inzaccherare di mota plebea. Per carità, non mancano risvolti speculari, come i critici engagé che ai concerti di «avanguardia» sottolineano la presenza di «signore impellicciate», come se ad esse andasse inflitta una sanzione secondo l’appartenenza sociale.

Bisogna spalancare le porte a chi vuole sinceramente avvicinarsi all’arte, pagando il minimo scotto di comportamenti ingenui, evitando di lasciare intendere che divertirsi è un crimine che si può praticare solo in forme espressioni inferiori, cioè tutte quelle che non sono parte dell’accademia eurocentrica e per le quali non si spreca il tabarro o il cocktail serale. Il futuro è sempre dei barbari, che valicano con poche inibizioni confini geografici, sociali, politici, economici. Talvolta può essere un’esperienza indispensabile. Anche se ti macchiano il tabarro con uno schizzo di ketchup volato dallo hot-dog».

Per concludere, potremmo dire: est modus in rebus, ma forse oggi Milano non è più «da bere», pur rimanendo «un gran Milan». La situazione è simile alle prime nei vari teatri italiani, dove in genere c’è più sfoggio di alta sartoria che di alta conoscenza della musica. In ogni caso, mi associo al pensiero di GMG e consiglio, personalmente, a Mattioli di leggere «Il Superuomo di Massa» dove Umberto Eco ricostruisce la storia del romanzo d’appendice, come pretesto per giungere alla conclusione che esiste solo «una cultura di massa», che riguarda ogni stile letterario, anche minore, l’arte in genere e la musica a tutti i livelli: dal rock alla sinfonica, dal jazz all’opera lirica. I luoghi dove fruire i vari generi musicali, cosiddetti nobili, non sono stati sempre decisi dalle élite, quale conventio ad excludendum nei confronti della plebe – mi riallaccio a GMG – non per paura che un plebeo non possa conoscere la musica, ma solo per il ribrezzo di vederselo seduto accanto.