// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

I rapporti fra musica popolare brasiliana e il jazz risalgono più o meno agli anni Venti/Trenta, quando la musica improvvisata di derivazione africano-americana rivelò nuove soluzioni armoniche agli arrangiatori brasiliani (musicisti come Donga e Pixinguinha avevano ascoltato il jazz per la prima volta nel 1922, durante una tournée in Francia, per quanto già negli anni Dieci si fossero diffuse danze come fox-trot, cake-walk e one-step), che da allora guardarono spesso e volentieri alla musica orchestrale americana (con un interesse specifico per lo sviluppo della batteria), almeno fino agli anni Cinquanta, prima che si affermassero fenomeni come la bossa nova e il samba-jazz, anticipati da artisti come Bené Nunes, João Donato, Johnny Alf, Moacyr Peixoto, Dick Farney: già al ritorno dalla Francia, Pixinguinha mutò il nome del proprio gruppo «Oito Batutas» in «Jazz- Band Os Batutas», inserendo anche fox-trot, shimmy e ragtime in un repertorio essenzialmente composto da «sambas, maxixes, choros, lundus, canções sertanejas, emboladas, batuques, cateretês» e, infine, indossando giacca e cravatta o smoking al posto del costume popolare del Nordest brasiliano.

Ciononostante, le due realtà più che condividere intimamente qualcosa (a parte una comune ma diversa eredità africana e un’inclinazione a fagocitare le tradizioni altrui che in Brasile assume le vesti di una vera e propria «antropofagia» culturale), hanno a lungo proseguito in un rapporto fatto di «convergenze parallele» e durato fino alla metà degli anni Sessanta, quando i musicisti brasiliani – facendo seguito all’operato pionieristico di musicisti come Hermeto Pascoal, Egberto Gismonti, Airto Moreira e della cosiddetta Vanguarda Paulista Instrumental (VPI) – cominciarono a trasferirsi negli Stati Uniti, lasciando un imprinting destinato a durare fino ai nostri giorni e che andrebbe studiato approfonditamente. Nel frattempo, dalla bossa nova e dallo sviluppo del samba-jazz (che poco o nulla ha a che fare con il jazz-samba) emergevano, in un contesto modernista-nazionalista che avrebbe permeato di sé tutta la musica strumentale brasiliana, figure e gruppi come Edison Machado, Milton Banana, Jorge Autuori, il già citato Airto Moreira, Dom Um Romão, Zimbo Trio, Tamba Trio, Rio 65 Trio, Trio Sérgio Mendes, Paulo Moura, Sambalanço Trio, Bossa Jazz Trio, Sérgio Barroso, Hélcio Milito, Tenório Jr., Tânia Maria, Bossa Três, la cui opera è stata ulteriormente affinata da artisti maggiormente inclini al cosmopolitismo come Victor Assis Brasil, Robertinho Silva, Nico Assumpção, Rogério Bocato, Antonio Adolfo, Márcio Montarroyos, César Camargo Mariano, Heraldo do Monte, i gruppi della Vanguarda Paulista Instrumental quali Divina Increnca, Grupo Um, Pé ante Pé, Pau Brasil, Metalurgia.

Sebbene la pratica del jazz sia diventata, in Brasile, una pratica al servizio di una visione profondamente identitaria del linguaggio improvvisativo, l’influenza della musica americana è stata comunque inevitabile. In pianisti dall’opera fondante per lo sviluppo del linguaggio internazionale come Luiz Eça (Tamba Trio) e Amilton Godoy (Zimbo Trio) il peso della visione musicale di George Shearing, Bill Evans, Erroll Garner, Oscar Peterson, Dave Brubeck, Chick Corea e McCoy Tyner è manifesto, per quanto il rapporto degli artisti legati alla bossa nova con i jazzisti americani abbia spesso dato risultati artificiosi, ed è raro trovare prima degli anni Settanta avanzati delle collaborazioni realmente stimolanti. Per questo «From The Hot Afternoon» di Paul Desmond non manca di stupire: lavoro musicale di notevole eleganza, di lirismo distillato, di sobria essenzialità eppure dall’eloquio di rara espressività. L’opera, che risale al 1969, nasce da una produzione di Creed Taylor e ne esibisce la consueta sontuosità: Desmond, artista attratto dalla musica latinoamericana ma con un’inclinazione alla delicata e cesellata astrazione apparentemente del tutto lontana dai Tropici, è sostenuto da un’orchestra che vanta strumentisti di altissimo rango (Marvin Stamm, Phil Bodner, George Marge, Paul Faulise, Hubert Laws, Pat Rebillot e altri), affidata ad alcuni fra i più illuminanti arrangiamenti mai firmati nella sua ricca carriera da Don Sebesky. In sé, il lavoro è pressoché interamente il frutto di una collaborazione fra Desmond, Edu Lobo (autore, insieme all’allora giovanissimo Milton Nascimento, di tutte le composizioni), il chitarrista Dório Ferreira, il batterista e percussionista Airto Moreira, il contrabbassista Ron Carter. A loro si deve, in effetti, un’alchimia linguistica in cui nulla veramente si fonde (non si tratta di materiale sincretico) ma in cui ogni elemento partecipa con totale dedizione al dialogo con gli altri, producendo un esempio di altissimo profilo della combinazione fra linguaggi urbani provenienti da realtà in parte diverse fra di loro, in parte accomunate da una poli-culturalità resa omogenea dal filo rosso della tradizione africana nelle Americhe.

Less is more: come si capisce dalle diverse alternate take, il linguaggio è stato sfrondato via via, reso sempre più flessibile, sempre più raffinato, sempre più significativo coloristicamente e ritmicamente dagli artisti brasiliani, strepitosi nel non rinunciare a nulla delle propria identità pur rendendola di una finissima quanto essenziale musicalità. Al contempo, Desmond, discendente esplicito e sottovalutato di Charlie Parker, si dona alla forza emotiva di un melodismo traslucido, di un fraseggio la cui sinuosità elegante e finemente espressiva non cela alcunché di quanto viene preziosamente intessuto intorno a sé, anzi vi si abbandona, pur senza perdere un controllo linguistico naturale quanto superbo. E nell’abbandonarsi, il fresco suono del sassofono, voce inconfondibile che pare provenire da un’alba onirica, coglie con memorabile e originale pertinenza lessicale, proprio nel manifestare un controllo che potrebbe apparire estraneo, la pervasiva malinconia, il soffuso dilaniarsi della perennemente irrisolta «saudade», il sotterraneo senso del dramma, la solitudine dell’abbandono, la dionisiaca ritualità individuale e collettiva della tradizione afro-brasiliana del samba. E che Desmond avvertisse pienamente la teatralità dolente del contesto appare chiaro dal suo desiderio di inserire una versione di «To Say Goodbye» (P’ra Dizer Adeus), scritta un tono e oltre sotto rispetto alle possibilità vocali della cantante Wanda De Sá (oggi fra le ultime muse della bossa nova, allora esordiente cantante e moglie di Edu Lobo), che riesce a malapena a sussurrare intelligibilmente il testo: il risultato è di una drammaticità desolata e pure profondamente intima, che il sassofono commenta etereo, solitario, aereo come un’epigrafe pudica. «From The Hot Afternoon» è un’opera malinconicamente labirintica, moderna nel suo unire astrazione ed emotività da poliglotta, nascostamente complessa nel suo essere manifestamente capace di narrare più vicende linguistiche con un unico, composito eloquio che al contempo si sdoppia su piani diversi e in lingue diverse per narrare, come su di un altro palcoscenico, nuove storie ancora.